In quel tepore di un’assolata mattina di primavera erano i miei verdi anni dei calzoncini corti fino all’inguine e le prime rondini con trilli di gioia sfrecciavano di ritorno al nido di sabbia sotto il balcone e vidi mio padre che affiggeva all’ampio portone un drappo di seta di tre colori, verde bianco e rosso, strisce che la sera prima aveva cucito assieme mia madre. E poi passò nella strada in salita un’automobile mai vista prima, seppi poi una gip, di color mimetico militare, alla guida un giovane dal viso di colore nero, mai visto prima, accanto un giovane dai capelli biondi e dal bianco viso imberbe. Questi reggeva accanto una frusta, ma mi lanciò delle caramelle di variopinti colori e mosse le labbra e il sorriso in suoni che mai avevo sentito prima.
Questa fu la mia festa della Liberazione a Prizzi, impressa negli occhi e viva ancora per il fatto eccezionale, unico e fuori dal comune, con questi vivi miricani.
Nulla sapevo del Decreto Legislativo Luogotenenziale 22 aprile 1946, n. 185 – Disposizioni in materia di ricorrenze festive che recitava:
«Ad integrazione delle disposizioni del presente decreto vedi il D.Lgs. del Capo provvisorio dello Stato 1° ottobre 1947, n. 1067: Art. 1. A celebrazione della totale liberazione del territorio italiano, il 25 aprile 1946 è dichiarato festa nazionale. Art. 2. L’efficacia del R. decreto-legge 24 luglio 1941, n. 781, convertito nella legge 17 ottobre 1941, n. 1165, è prorogata di sei mesi». Ora so che con Legge 27 maggio 1949, n. 260: Disposizioni in materia di ricorrenze festive. (Pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 124 del 31 maggio 1949), presentata da Alcide De Gasperi in Senato nel settembre 1948, fra i giorni «considerati giorni festivi, agli effetti della osservanza del completo orario festivo e del divieto di compiere determinati atti giuridici, oltre al giorno della festa nazionale» era incluso quel mio straordinario 25 aprile come “Anniversario della liberazione”.
Nulla sapevo allora di Norberto Bobbio, il più profondo nella cultura filosofico-giuridica e filosofico-politica, che ricordava: “Dopo venti anni di regime e dopo cinque di guerra, eravamo ridiventati uomini con un volto solo e un’anima sola. Eravamo di nuovo completamente noi stessi. Ci sentivamo di nuovo uomini civili. Da oppressi eravamo ridiventati uomini liberi. Quel giorno, o amici, abbiamo vissuto una tra le esperienze più belle che all’uomo sia dato di provare: il miracolo della libertà”.
Così nulla dell’epigrafe dell’insigne giurista e politico Pietro Calamandrei: «La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare». O di quella del futuro Presidente della Repubblica Sandro Pertini, la più affabile espressione del “potere di esternazione” (all’insediamento: «Non vi può essere vera libertà senza giustizia sociale, come non vi può essere vera giustizia sociale senza libertà»): «È meglio la peggiore delle democrazie della migliore di tutte le dittature».
E di tanti altri. Ora so che fu quello il vero nostro Risorgimento, la Nazione che provava l’unione.
Ma forse è Pier Paolo Pasolini, in quest’anno del Centenario dalla nascita (5 marzo 1922), ad esprimere meglio questa verità che illumina e dà gioia, pur nell’esaltazione della tragedia della morte del fratello Guido, ucciso, da partigiano, nel maggio del 1945 durante l’eccidio di Porzûs:
La resistenza e la sua luce
Così giunsi ai giorni della Resistenza
senza saperne nulla se non lo stile:
fu stile tutta luce, memorabile coscienza
di sole. Non poté mai sfiorire,
neanche per un istante, neanche quando
l’Europa tremò nella più morta vigilia.
Fuggimmo con le masserizie su un carro
da Casarsa a un villaggio perduto
tra rogge e viti: ed era pura luce.
Mio fratello partì, in un mattino muto
di marzo, su un treno, clandestino,
la pistola in un libro: ed era pura luce.
Visse a lungo sui monti, che albeggiavano
quasi paradisiaci nel tetro azzurrino
del piano friulano: ed era pura luce.
Nella soffitta del casolare mia madre
guardava sempre perdutamente quei monti,
già conscia del destino: ed era pura luce.
Coi pochi contadini intorno
vivevo una gloriosa vita di perseguitato
dagli atroci editti: ed era pura luce.
Venne il giorno della morte
e della libertà, il mondo martoriato
si riconobbe nuovo nella luce…
Quella luce era speranza di giustizia:
non sapevo quale: la Giustizia.
La luce è sempre uguale ad altra luce.
Poi variò: da luce diventò incerta alba,
un’alba che cresceva, si allargava
sopra i campi friulani, sulle rogge.
Illuminava i braccianti che lottavano.
Così l’alba nascente fu una luce
fuori dall’eternità dello stile.
Nella storia la giustizia fu coscienza
d’una umana divisione di ricchezza,
e la speranza ebbe nuova luce.
E proprio in questi tempora horribilia, “tempi orrendi” di stragi dell’uomo bruto, dell’homo homini lupus, dell’uomo tornato cannibale, ancora voglio chiudere queste riflessioni e questa testimonianza con una epigrafe che confermi l’Anniversario della Liberazione in eterno secondo la certezza di Orazio, Carmina, III, 30, 1-6:
«Exegi monumentum aere perennius
regalique situ pyramidum altius,
quod non imber edax, non Aquilo inpotens
possit diruere aut innumerabilis
annorum series et fuga temporum.
Non omnis moriar…»
(«Ho innalzato un monumento più duraturo del bronzo, più alto della regale maestà delle piramidi: che né la pioggia che corrode, né il vento impetuoso potrà abbattere, né l’interminabile corso degli anni, la fuga del tempo. Non morirò del tutto»).
Scriveva ancora Pasolini una disperata considerazione che voglio porre ad eterno monito per i piccoli uomini dell’ecumene tutto, che ha fatto un credo della cancell culture, fermo io nel principio che siamo la somma di tutti quelli che son venuti prima a cominciare da quelli che incidevano graffiti o dipingevano murales nelle caverne:
«Noi siamo un paese senza memoria. Il che equivale a dire senza storia. L’Italia rimuove il suo passato prossimo, lo perde nell’oblio dell’etere televisivo, ne tiene solo i ricordi, i frammenti che potrebbero farle comodo per le sue contorsioni, per le sue conversioni. Ma l’Italia è un paese circolare, gattopardesco, in cui tutto cambia per restare com’è. In cui tutto scorre per non passare davvero. Se l’Italia avesse cura della sua storia, della sua memoria, si accorgerebbe che i regimi non nascono dal nulla, sono il portato di veleni antichi, di metastasi invincibili, imparerebbe che questo Paese speciale nel vivere alla grande, ma con le pezze al culo, che i suoi vizi sono ciclici, si ripetono incarnati da uomini diversi con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l’etica, con l’identica allergia alla coerenza, a una tensione morale» (PPP, Scritti corsari, Garzanti, Milano, 1975).