Le guerre sono fatte, da chi le scatena, per arrivare alla pace se e quando riterrà di aver incassato guadagni rispetto alla situazione che lo ha spinto a muovere la prima pedina del conflitto. C’è un’altra eventualità: che la pace sia imposta dall’aggredito o vincendo o spingendo l’aggressore ad accontentarsi dei guadagni acquisiti (vi riesce solo se abbastanza armato da incutere all’aggressore il timore che soffra danni troppo elevati, stimolandolo ad accontentarsi), o da un colpo interno. Una regola fondamentale della guerra è che per iniziarla basta un attore, per chiuderla ne occorrono due o più, dal che deriva che la pace è frutto di un processo lungo e complesso. Non casualmente il termine “negoziato” deriva da nec otium, a significarne la fatica e l’impegno in vista del risultato.
Se dovessimo dar retta al maestro della polemologia, il generale Carl Philipp Gottlieb von Clausewitz (1780-1831), la guerra in corso nell’Europa centrale dovrebbe essere vinta dagli ucraini. Nei primi due mesi di conflitto hanno mostrato migliore performance nella triade che il prussiano ha indicato a fondamento di ogni vittoria bellica: popolo, governo, forze armate. Si vedrà se, nel prosieguo, le cose staranno negli stessi termini. Putin sta provando a raddrizzare i comportamenti sul campo dei suoi, sinora crudeli e insieme imbarazzanti per uno stato che pretende di essere una superpotenza. Si aggiunga, rispetto alla guerra cavalleresca della quale scriveva von Clausewitz, che Mosca è in grado di fare uso di armi di distruzione di massa: se accadesse, altererebbe gli schemi di analisi proposti in Vom Kriege (1832) e quindi l’esito finale.
In quanto alla pace, per ora ne ignoriamo eventualità e conformazione. Intanto constatiamo che il sistema internazionale sta subendo il terzo choc strategico in trent’anni. Avrà conseguenze ben più rilevanti rispetto ai due precedenti (la fine del comunismo in Europa e il terrorismo islamista), a causa di fattori che stanno ribaltando la struttura della politica internazionale così come l’abbiamo conosciuta nel dopo Urss.
Il primo e più importante di questi fattori è che le potenze non solo non cooperano alla soluzione della crisi (come avvenne nella lotta al terrorismo islamista e nella gestione del dopo comunismo in Europa), ma la alimentano, alzandone il livello e utilizzandola come occasione per tentare di affermare la propria supremazia sull’altro.

Il secondo è la scomparsa, dalla politica internazionale, della capacità di mediazione. Il fatto che la cosa non desti sorpresa in chi da anni critica la sistematica caccia al multilateralismo scatenata da Mosca e Washington, non diminuisce la drammaticità della constatazione. A due mesi dall’invasione russa, nessuno dei volontari che hanno provato a intermediare la pacificazione è riuscito ad aprire un tavolo serio di negoziato. Al tempo stesso, le Nazioni Unite a livello globale e l’Osce (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) a livello regionale hanno mostrato quanto le organizzazioni internazionali siano state depredate dagli stati di ogni residua capacità di interdizione dei conflitti. All’interno della constatazione, si pone in modo nuovo la questione Unione Europea, perché mai prima le istituzioni unionali erano state coinvolte nella fornitura di armi a forze in conflitto.
Il terzo è la confermata capacità cinese di incassare dividendi politici, economici e strategici, dagli errori altrui. Trump volle trasformare la Cina da competitore in avversario, con il risultato di lasciarle campo libero nei paesi in sviluppo (persino in America Latina) e di gettarla nelle braccia russe, ultima tra le scelte che la politica cinese avrebbe mai compiuto se non vi fosse stata in qualche modo costretta. La moderazione cinese in politica estera ha fatto sì che il partenariato tra Pechino e Mosca restasse sinora alla larga dalle sirene moscovite sull’opportunità di un’alleanza strategica, ma non sarebbe sbagliato se alla Casa Bianca, in questo frangente, si agitasse qualche segnale di apertura verso Pechino. Tanto più che al termine della guerra ucraina, una Russia probabilmente indebolita e umiliata, sarà più dipendente di prima dalla Cina, accrescendo l’alea di una maggiore complicità di interessi tra Pechino e Mosca.
Il quarto riguarda le partite che resteranno aperte rispetto all’economia (non sarà indolore per nessuno il distacco europeo dalla mammella dell’energia russa, nella presente complicatissima fase della ripresa economica mondiale), alle forme politiche di governo (il futuro dei populismi e delle democrature in paesi come Ungheria, Polonia, Turchia, ma anche Stati Uniti, e forse Italia), alla corsa agli armamenti (inevitabile l’accelerazione ovunque).
Euractiv, la rete paneuropea di media che dal 1999 esamina e commenta le politiche dell’Unione Europea, ha proposto sei scenari per l’uscita dal conflitto, tre per ciascuno dei contendenti. Nel più favorevole ai russi, l’Ucraina viene scissa in due: la parte orientale e meridionale sarebbero prima o poi annesse alla Russia e l’assimilazione delle popolazioni che abitano quei territori sarebbe totale. Nel più favorevole agli ucraini, l’Ucraina si libererebbe dell’invasore e, dopo otto anni di resistenza si ritroverebbe pienamente sovrana sul suo territorio internazionalmente riconosciuto, riappropriandosi anche della Crimea. Ambedue gli scenari, allo stato, appaiono irrealistici.
Nella seconda coppia di scenari, i russi otterrebbero una mezza vittoria: l’Ucraina, come capitò ai serbi al termine della guerra di aggressione agli altri popoli della Iugoslavia, perderebbe ogni accesso al mare e diverrebbe territorio di fatto vassallo della politica e dell’economia russe. È ciò che la campagna militare russa sembra avere al momento come massimo obiettivo, dopo le batoste rimediate sul terreno, ma le armi pesanti in arrivo saranno un obiettivo ostacolo al disegno. Agli ucraini lo scenario di mezzo porterebbe il ritorno alla situazione territoriale formalmente esistente alla vigilia dell’invasione russa: la Crimea resterebbe sotto sovranità moscovita, ma i ricchi territori minerari orientali tornerebbero (pienamente?) sotto il controllo di Kiev.
Nel terzo scenario, il peggiore per Mosca, la Russia pur mantenendo la Crimea e la fascia meridionale marittima dove si sta spendendo la sua seconda linea offensiva, dismetterebbe le aspettative sui territori orientali ucraini rinunciando al Donbass. Essendo questa regione l’obiettivo dichiarato della seconda parte delle operazioni sul campo, si tratterebbe di una vittoria pirrica, visti i costi altissimi pagati per ottenerla. La vittoria pirrica dell’Ucraina consisterebbe invece nel salvataggio dell’indipendenza, ma a costo di amputazioni territoriali nelle autoproclamate repubbliche di Doneck e Lugansk, riconosciute dalla Russia, oltre che in Crimea. Si potrebbe di conseguenza immaginare un rimbalzo politico interno che potrebbe non risparmiare il presidente in carica.
Euractiv non presenta il settimo scenario che pure circola sui tavoli degli stati maggiori: l’escalation verso la Terza guerra mondiale. L’opinione generale è che ci sarebbe sempre e comunque chi, a Mosca interromperebbe la catena di comando che porta all’uso di armi chimiche o nucleari tattiche, nel caso di ordine in quel senso (Usa e Nato hanno chiarito che si tratta della linea rossa), ma al tempo stesso nessuno si esprime su quale scenario un incidente non voluto (un missile sparato per errore verso la Polonia, un aereo russo abbattuto mentre sorvola paesi Nato, e simili) potrebbe accendere. È ovvio che più dura il conflitto, più si alza il livello dell’interventismo di paesi dell’occidente a supporto dell’Ucraina, e più il rischio dello scenario peggiore aumenta. Non casualmente le lancette del doomsday clock (l’orologio che il Bulletin of the Atomic Scientists utilizza per segnalare l’imminenza del pericolo di deflagrazione nucleare) mai si sono così tanto avvicinate alla mezzanotte (100 secondi fissati a gennaio), nei 75 anni di funzionamento: per renderci conto della situazione, all’acme della crisi di Cuba le lancette di quell’orologio segnavano 7 minuti prima della mezzanotte.
Restando alla guerra come si svolge sinora, nessuno dei sei risultati ipotizzati potrà giustificare l’immenso costo pagato in termini di vite, infrastrutture, beni. Il che, se ce ne fosse bisogno, conferma la tesi sull’errore fondamentale costituito dalle guerre d’aggressione, come da ultimo spiegato nel libro di Vito de Simone “The Ovum Government”, sul quale ha avuto modo di esprimersi anche La Voce. Tuttavia, siccome la vita dovrebbe continuare, qualche interrogativo sul dopo guerra sarà doveroso porselo. Il punto di partenza del ragionamento di seguito proposto è che, comunque il conflitto sul campo vada a concludersi, la Russia ne uscirà militarmente, politicamente ed economicamente ridimensionata.

Sul piano militare sta facendo la figura del re nudo, mostrando le pecche di un apparato burocratico che aveva saputo mascherare grazie alla brutalità distruttiva nei conflitti allestiti in Cecenia e Siria. Le arretratezze risalgono ai tempi sovietici, e non sono state pienamente corrette, né in termini di dottrina militare né di avanzamento tecnologico. La grancassa propagandistica e intimidatoria sulla disponibilità di armamenti speciali, iniziata mesi prima dell’offensiva ucraina, e terminata con il lancio del missile balistico Sarmat il 20 aprile, non ha potuto coprire i limiti evidenziati dai mezzi visti in campo, come i droni che montano una bottiglia di plastica per il carburante e la macchina fotografica Canon per le riprese.
Sul piano politico, Mosca è ridotta a paria nella famiglia delle nazioni, un intoccabile dal quale guardarsi e del quale non fidarsi. Sarà esclusa per lungo tempo dal fluire internazionale di cultura, sport, economia, tecnologia, scambi umani. Il quadro complessivo, oltre a peggiorare la vita delle persone e accrescere l’arretratezza del sistema paese, paradossalmente impedirà alla Russia di sviluppare armi ad alto contenuto tecnologico, difettando dei microprocessori e altre tecnologie indispensabili.
Sul piano economico, le sanzioni avranno un effetto progressivo (solo dall’Ue Mosca rischia di non incassare più i quotidiani 450 milioni per la vendita di petrolio e 400 milioni per la vendita di gas). Al danno finanziario, la Russia aggiungerà il danno tecnologico, che la Cina non sarà in grado di compensare almeno in questo decennio. Possono facilmente prevedersi inflazione in aumento, standard di vita in diminuzione, contrazione del prodotto interno lordo. Se per ora si calcola in circa 15 anni (nelle tecnologie per produrre microprocessori si arriva a quasi venti) il ritardo tecnologico russo rispetto agli standard euro-occidentali, il dopo guerra ucraina potrebbe alzare la distanza media sino a 18, 19 anni. Il che potrebbe, sommandosi agli altri fattori, avere anche effetti sulla stabilità politica.
Il prevedibile crescente isolamento della Russia non è una buona notizia, perché contribuirà a fare di quel paese, anche più di adesso, una società “asiatica”, alzando la sua storica propensione a costituirsi in regime dispotico, fondato sull’alleanza nazionalistica di pochi oligarchi sfruttatori del popolo e delle nazioni sottomesse con la forza, in accordo con la millenaristica chiesa ortodossa. Il disagio dei ceti medi cresciuti in epoca putiniana, degli intellettuali e degli artisti che avevano tollerato il compromesso pre-bellico, confluirà nel vittimismo e nello spirito di rivincita che nelle culture nazionalistiche fa seguito ai progetti di conquista falliti. Se queste tendenze trovassero conferma, occorrerebbe fare i conti con le complicazioni di un sistema internazionale che si sta cacciando in una spirale che non promette nulla di buono, salvo (si spera) il futuro democratico ed “europeo” dell’Ucraina.
Sul piano strategico, l’irrigidimento in corso nei rapporti tra le nazioni sta portando alla costituzione di un blocco occidentale con caratteristiche sconosciute persino nel tempo bipolare. Nazioni da sempre neutrali come Finlandia e Svezia chiedono di entrare nella Nato, l’Ue allarga le competenze alla sfera militare e si schiera apertamente con la Nato. Di fronte alla minaccia russa, l’Europa centro-occidentale è costretta ad armarsi, e perde quote di autonomia dovendosi affidare agli Stati Uniti, pur nella consapevolezza che l’America non è solo Biden e che molta responsabilità di quanto sta accadendo ricade proprio su Washington, il cui ex presidente e probabile candidato repubblicano alle prossime elezioni, con Mosca aveva e presumibilmente avrebbe ancora, nel caso potesse esprimerla, una politica diversa da quella dell’attuale amministrazione. Forse anche per questo il governo tedesco appare tutt’altro che entusiasta per quanto sta accadendo.
L’esitazione tedesca (che non è solo tedesca, ma Berlino ha la forza per manifestarla, e altre capitali europee non) si collega anche alle previsioni economiche che stanno circolando. Per un paese manifatturiero (lo stesso problema lo ha l’Italia), l’incremento eccessivo nei costi di materie prime e di energia, insieme al taglio del mercato russo, portano a difficoltà finanziarie, tanto più se si è nel pieno del tentativo di ripresa dopo le limitazioni alla crescita imposte da Covid-19, e occorre ripianare bilanci pubblici complicati dai costi sociali che si sono dovuti affrontare a causa della pandemia. Il tutto mentre partono i piani di rilancio e di resilienza previsti in sede UE, e la transizione alla neutralità climatica. La Banca Centrale Europea ha tagliato le previsioni di crescita per il 2022 al 3,7%, 0,7% meno delle stime di dicembre 2021; Goldman Sachs ha ridotto le sue previsioni dell’1,4%.

In questa situazione, la Russia guarderà a partenariati più fitti con i paesi in sviluppo, in particolare con quelli a regime autoritario, tirando vantaggio anche dalla penetrazione che la Cina sta realizzando in Asia e Africa attraverso il progetto “via della seta”. In quest’ambito il rapporto russo-cinese diventa fondamentale, in particolare sotto il profilo della proposta politica che, esplicitamente, da anni i leader russo e cinese fanno al mondo, parlando di “superiorità” delle loro società rispetto a quelle costruite sui principi liberal democratici.
Il mondo interconnesso al quale siamo abituati e nel quale ci identifichiamo, non potrà resistere a un periodo troppo lungo di tensioni. Si andrebbero a formare blocchi ideologici e di interessi che non gioverebbero né allo sviluppo, né alla pace. Le diplomazie, finita la guerra in Ucraina, dovranno adoperarsi perché cessi l’arroganza e la sfida per la supremazia tra le potenze, e sia rimesso in funzione il metodo del paziente confronto multilaterale, che ha garantito sviluppo e pacificazione per così tanti decenni, nel novecento e nei primi anni del nuovo secolo. Nell’immediato occorre tessere le condizioni per una nuova conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa sul modello di quella che si svolse tra il 1973 e il 1995, e per la ripresa del dialogo sul disarmo e la riduzione degli armamenti nucleari.
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