In una videointervista alla CNN di giovedì 28 ottobre, la Presidente taiwanese Tsai Ing-wen ha confermato la recente esclusiva del Wall Street Journal che ha rivelato lo stazionamento a Taiwan di un piccolo numero di truppe statunitensi da oltre un anno, apparentemente per svolgere funzioni di addestramento. Il capo di Stato taiwanese ha anche affermato di “aver fede” nell’intervento americano a difesa di Taiwan in caso di attacco cinese.
Eppure, anziché corroborare le chiacchierate dichiarazioni del Presidente Joe Biden del 21 ottobre secondo cui gli USA si impegneranno a proteggere l’isola se invasa dalla Repubblica Popolare (Rpc), il discorso di Tsai suona piuttosto come una fiera ma necessaria richiesta d’aiuto di chi, temendo per la propria sopravvivenza, fiducioso e sicuro del supporto americano proprio non è.

Secondo la stampa internazionale, nel giro di una settimana gli interventi dei due leader hanno aggiunto speculazioni sull’allontanamento dalla annosa “ambiguità strategica”, per cui i due paesi non sarebbero formalmente alleati. Ancora oggi Washington non ha rapporti diplomatici ufficiali con il governo di Taipei, ma le dichiarazioni vicine dei due Presidenti sembrerebbero preconizzare un possibile cambio di rotta nella gestione americana delle aspirazioni unioniste cinesi nei confronti dell’ex isola di Formosa. Ma è proprio così?
La Presidente Tsai ha deciso non a caso di rivolgersi alla TV americana per la prima volta dopo due anni di silenzio sui mass-media internazionali. Molteplici gli intenti tattici. Nonostante l’incapacità attuale della Cina di condurre un attacco anfibio nell’isola e data l’incapacità di Taiwan di difendersi da sola, l’avvertito senso di accerchiamento ha spinto Tsai a mettere spalle al muro il governo statunitense affinché sciolga le ambivalenze sul supporto bellico a Taipei in funzione anticinese. Per farlo, Tsai utilizza il canale mainstream per eccellenza, quello che arriva dritto nelle case degli americani, adottando una narrativa smaccatamente compiacente.
Magnifica gli sforzi locali nell’ammodernamento delle capacità militari dell’Isola. Rivendica la leadership nella fornitura globale di semiconduttori. Dipinge Taiwan non solo come un paese amico, ma culturalmente vicino agli Stati Uniti nella difesa della democrazia e dei diritti umani – categorie profondamente care all’opinione pubblica d’Oltreoceano e all’attuale amministrazione. In nuce, al fine di persuadere il gigante USA a esplicitare una presa di campo netta in un dossier strategico tanto per Taipei quanto per Washington, Taiwan vuole accreditarsi di fronte agli Stati Uniti come paese disposto a lottare, indispensabile per la catena del valore mondiale, e intrinsecamente legato agli americani da valori comuni.

Dal 1979, anno in cui gli USA cambiarono il riconoscimento diplomatico da Taipei a Pechino, le forze statunitensi si sono ampiamente tenute alla larga da Taiwan al fine di non esacerbare le tensioni latenti con la Repubblica Popolare in quello che è il delicatissimo dossier di volta per la scaturigine (o meno) di una guerra per l’egemonia mondiale fra il Numero Uno e lo sfidante. Eppure, la tensione fra le due Cine oggi è più che mai palpabile.
Ad agosto, gli Stati Uniti hanno diffuso la foto di un gruppo di aviatori taiwanesi e di consiglieri dell’avionica USA in posa di fronte a una batteria missilistica Patriot a Taiwan. Nello stesso mese, la prima visita in assoluto delle truppe taiwanesi all’ambasciata de facto degli Stati Uniti a Taipei, dove Washington aveva già apertamente discusso l’ipotesi di uno stazionamento di truppe a stelle e strisce. Per tutta risposta, a inizio ottobre, 150 incursioni di jet cinesi sono state segnalate nello spazio aereo di difesa di Taiwan in soli quattro giorni.
Ancor più centrale quindi è il riferimento della leader a un possibile incontro col Presidente cinese Xi Jinping, seguito dall’auspicio di una “coesistenza pacifica” fra i due paesi. Ciò che per Taiwan è sinonimo di sopravvivenza e dunque indipendenza (da ribattezzare “the Taiwanese Dream”). Mentre significa sconfitta assoluta per la Cina che brama la riunificazione entro il 2049 (centenario della fondazione della Rpc) fra il mainland (Cina continentale) e le periferie di Hong Kong, Macao, e Taiwan – rivendicati fin dal 1949 come parti “inalienabili” del suo territorio.
Taiwan, insomma, pone il dilemma strategico sul piatto. Vedremo se gli USA si decideranno, malgrado l’ira del Dragone.