È un centrodestra sconfitto su tutti i fronti quello che esce dalle urne. Obsoleti gli appelli, evanescenti i programmi, fallimentari le candidature. Gridare all’invasione degli immigrati non fa più presa. Lo stesso, promettere generiche formulette, ormai trite e ritrite, sul fisco tiranno. E segna il passo anche il ricorso al candidato guascone.
A Roma, Gualtieri stacca di venti punti Michetti al ballottaggio. Netta vittoria per il centrosinistra anche al ballottaggio di Torino, con Stefano Lo Russo. Mentre a Milano, Bologna e Napoli, il centrosinistra si era imposto in modo schiacciante al primo turno, rispettivamente con Beppe Sala, Matteo Lepore e Gaetano Manfredi. Unica consolazione per il centrodestra, aver mantenuto Trieste, dove Roberto Dipiazza ha vinto sullo sfidante Francesco Russo.
La pandemia ha reso l’elettorato, tutto, assai meno indulgente. C’è poca voglia di perdere altro tempo e tanta di recuperare quello perduto. Impuntarsi sulla strategia del bastian contrario ha davvero stancato. Obiettare su mascherine, distanziamento, vaccini e perfino sul green pass, con un tono canzonatorio da Bagaglino, è stato il grande, reiterato errore di Salvini. Farlo sprecando decibel e paventando di continuo strappi alla Costituzione, quello di Giorgia Meloni.

Scegliendo di nuovo la via più facile, perfino in un periodo così eccezionale e complicato, i due presunti campioni della destra si sono mostrati giocatori mediocri. Bravissimi a far gonfiare il consenso nell’arena mediatica, incapaci di apparire credibili al cospetto dei problemi immediati dei cittadini. Crisi economica, crisi abitativa, mancanza di lavoro, scuola, servizi, sostegni economici. Su questi e su altri temi che aggrediscono la quotidianità degli elettori, i candidati del centrodestra, e allo stesso modo i leader nazionali, non hanno saputo opporre niente di concreto. Né programmi chiari, né una pregressa competenza sul campo, alla quale rivolgersi almeno sulla fiducia.

Per correttezza, bisogna dire che nemmeno i candidati del centrosinistra, ad esclusione di Sala a Milano e Lo Russo a Torino, hanno brillato per chiarezza e concretezza dei programmi politici. Anzi! Ma proprio qui sta il senso di questa tornata elettorale. Il centrosinistra ha messo in campo candidature che uniscono competenza e moderatezza. L’esempio più noto (vista la portata della sfida) è il neo sindaco di Roma Roberto Gualtieri: uomo delle istituzioni europee ed economista stimato. Sala succede a se stesso dopo 5 anni di ottimi risultati.
Lepore, a Bologna, è stato assessore della giunta uscente. Il tutto, mentre a livello nazionale i partiti della coalizione (in particolare, PD, IV, Azione e PiùEuropa) facevano propria l’agenda Draghi, sia in ambito sanitario sia in quello economico. Infatti, dopo un iniziale tentennamento, dovuto allo scotto dei “contiani” del Nazareno per il cambio di inquilino a Palazzo Chigi, il centrosinistra si è stretto intorno al premier. Un premier stimato e appoggiato nel mondo, refrattario al sensazionalismo e abituato a parlare solo quando ha qualcosa da dire. Ma soprattutto, il premier che ha convinto l’Europa sul PNRR e che, assieme al Generale Figliuolo, ha allestito una campagna vaccinale di successo, che sta facendo uscire il Paese dal tunnel della pandemia.

Alla fine, il centrosinistra fattosi “draghiano”, è riuscito a far passare un messaggio di affidabilità. Esattamente quello di cui l’elettorato ha bisogno, dopo quasi due anni di incertezza assoluta, materiale ed esistenziale. Chi la mattina presto deve prendere un mezzo pubblico, aprire una saracinesca, entrare in una scuola o in un’università, o in un qualsiasi esercizio, un’officina, in una fabbrica; insomma, chiunque abbia del lavoro da fare, non ha più tempo per le esibizioni muscolari nei salottini televisivi. E ha ancora meno tempo da perdere chi un lavoro non ce l’ha. Dopo due anni di stravolgimento della propria vita, le persone pretendono di essere trattate da adulti. Questo vale per tutto il territorio nazionale. E certamente vale per l’operoso Nord Est, che delle pose del “Capitano” è ormai stufo.
Questo, non a caso, è il motivo che sta alla base anche del crollo rovinoso del Movimento 5 Stelle. L’effetto Conte si è rivelato una mannaia sul già malconcio partito di Grillo. Perse Roma e Torino, che furono le due rampe di lancio per l’atterraggio al governo, i 5S franano ovunque, scendendo alla metà e spesso a un terzo dei voti rispetto a cinque anni fa. Non ha certo aiutato l’inconcludenza della figura di Conte sulle questioni di merito, peraltro legata alla gestione infelice della pandemia e al mancato ottenimento del sì della UE sul Recovery Plan.

Ma nemmeno ha aiutato il passato anti sistema e anti scienza dell’era Casaleggio. Un passato che in realtà è ancora molto presente nella base. Come si evince dal malpancismo montante verso Conte, presente da molto prima di questa debacle elettorale. Hanno vinto dunque pragmatismo e riformismo, ha perso di brutto il populismo.
E il centrodestra, tutto, ha mancato un’occasione (l’ennesima) per maturare. L’ha mancata Salvini, che pure da antieuropeista e sovranista ha saputo sedersi al governo assieme a Mario Draghi, ex governatore della BCE, considerato nel mondo il “salvatore dell’euro”.

Ma più di tutti, nel centrodestra, l’occasione rappresentata dal governo Draghi la sta perdendo Forza Italia. Il partito di Berlusconi, inspiegabilmente, è ancora impantanato in progetti di alleanza ormai innaturali con la Lega salviniana e soprattutto con l’altra grande sconfitta, Giorgia Meloni. Forza Italia, con Dipiazza a Trieste, esprime l’unico sindaco vincente nelle grandi città. Ma soprattutto, è ormai un partito saldamente europeista e improntato al riformismo. Usciti da questa fase emergenziale di larghe intese, come può Forza Italia immaginare un futuro in coalizione con gli amichetti italiani di Orban?