“Una sfida aperta all’unità degli ordinamenti giuridici europei”. I toni usati dalla presidente della Commissione europea, Ursula Von Der Leyen, non sono certo conciliatori. Pomo della discordia è la sentenza del Tribunale costituzionale polacco, che ha stabilito la parziale incompatibilità del diritto UE con la Costituzione nazionale. Non si è fatta attendere nemmeno la piccata replica del primo ministro Mateusz Morawiecki: “Parlare di violazioni dello Stato di diritto o di ‘Polexit’ è una falsità”.
I toni usati durante il dibattito, tenutosi martedì al Parlamento europeo sulle violazioni dello Stato di diritto in Polonia, infiammano lo scontro tra Varsavia e Bruxelles. A gettare benzina sul fuoco è stata, il 7 ottobre, una controversissima sentenza della corte costituzionale polacca. In sostanza, i giudici varsaviani hanno stabilito che qualsiasi atto UE (sentenza o norma) adottato ultra vires – ossia al di fuori degli ambiti di competenza delegati a Bruxelles dagli Stati nazionali – deve considerarsi incompatibile con la Costituzione polacca, e quindi nullo.
Il caso specifico verteva sulla riforma del sistema di nomine giudiziarie in Polonia – aspramente criticato dall’UE per aver violato il principio della separazione dei poteri. Il sistema di designazione delle toghe nel Paese centroeuropeo è difatti gestito da un organismo formalmente indipendente, il Consiglio Nazionale della Magistratura, i cui 25 membri sono stati sottoposti negli ultimi anni a un’imponente riorganizzazione organica e regolatoria. A causa della riforma in questione, la maggioranza assoluta del Consiglio è infatti diventata espressione del parlamento (in particolare del Sejm, camera bassa, che ne nomina 15 su 25). Il parlamento, a sua volta, è controllato della maggioranza di destra capitanata dal partito nazionalista “Diritto e Giustizia” (PiS). Risultato: il potere giudiziario è diventato emanazione del potere legislativo, che a sua volta si trova in una condizione di sostanziale subalternità rispetto all’esecutivo. Un sistema che, più che la separazione dei tre poteri di Montesquieu, sembrerebbe omaggiare il Leviatano di Hobbes.
Non c’è voluto molto prima che la questione finisse sul tavolo della Corte di giustizia dell’Unione europea. All’inizio di marzo la corte di Lussemburgo aveva stabilito, in via pregiudiziale, che la riforma giudiziaria polacca fosse incompatibile con il diritto UE. Pochi mesi dopo, la CGUE aveva inoltre chiesto al Governo di Varsavia di sospendere un’altra legge, correlata alla precedente: quella sulla responsabilità dei magistrati – che arriva a punire con il licenziamento un giudice che si dedichi ad “attività politiche” assai vagamente definite.
Come in una partita di ping-pong, al d(i)ritto di Bruxelles è corrisposto un vigoroso rovescio di Varsavia. Si torna così all’attualità, ossia alla sentenza costituzionale polacca sull’inefficacia della decisione UE. La motivazione data dai giudici polacchi è che la corte europea si sarebbe indebitamente intromessa in una questione, quella dell’organizzazione giudiziaria nazionale, che non rientra nelle competenze di Bruxelles. A sua volta, la CGUE non considera la questione giudiziaria una semplice bega interna, bensì una seria minaccia allo Stato di diritto nel cuore del Vecchio Continente oltreché alle fondamenta democratiche dell’UE, riconducendola al suo ruolo di guardiano dei valori comuni europei.
A ben vedere, la sentenza ha assestato un colpo a ben due principi fondanti dell’Unione: quello, filosofico, della separazione dei tre poteri statali (legislativo, esecutivo e giudiziario) alla base del sistema democratico dei checks and balances. Ma anche quello, giuridico, della supremazia del diritto UE su tutto il diritto interno degli Stati membri – un mantra su cui Bruxelles si è dimostrata storicamente inflessibile. D’altronde, è stata proprio la giurisprudenza della Corte di giustizia a fare da motore all’integrazione giuridica comunitaria per buona parte del secondo Novecento, spianando la strada all’unione politica.
A dire il vero, su quest’ultimo punto la Polonia non è la sola “dissidente”: nell’estate del 2020 fu la corte costituzionale tedesca a far infuriare la CGUE per aver “disapplicato”, e addirittura “interpretato” autonomamente, il diritto UE. Compiti che i Trattati europei attribuiscono ai soli giudici di Lussemburgo. Casi simili hanno peraltro interessato, tra gli altri, la Spagna e l’Italia. La Germania, ça va sans dire, non è però la Polonia. Di fatto, la sentenza varsaviana è solo l’ultima di una serie di minacce al rule of law liberale durante i sei anni di Governo PiS, dalle politiche discriminatorie nei confronti della comunità LGBTQ alla criminalizzazione dell’aborto, passando per il deterioramento della libertà di stampa.
Il dibattito di martedì al Parlamento europeo ha così messo di fronte due visioni contrapposte. In alcuni passaggi, Morawiecki ha alternato la captatio benevolentiae – rassicurando i ventisei che “la Polonia è e resterà membro dell’Unione” – ad attacchi ben assestati – esprimendo preoccupazione “per l’indirizzo (accentratore) che sta assumendo l’Unione”. Secondo il capo del Governo polacco, devono essere gli Stati membri a decidere quali competenze vengono trasferite all’UE, perché Bruxelles – ha ricordato – “non è uno Stato”. Affermazione che, per quanto corretta dal punto di vista del diritto internazionale, si abbatte come un terremoto contro l’obiettivo della “unione sempre più stretta” (ever closer union).
Anche Von Der Leyen ha affiancato lusinghe (“La Polonia è parte dell’Europa e sarà sempre il cuore dell’Europa”) a critiche a viso aperto. Nel corso del suo intervento, la presidente ha quindi annunciato il ventaglio di mosse a disposizione dell’esecutivo eurounionale. In primis, c’è la concretissima possibilità che si attivi una (altra) procedura d’infrazione nei confronti di Varsavia. Dall’altra, non alternativamente alla prima, c’è l’extrema ratio di “congelare” i fondi del Recovery Fund, vincolandoli a passi avanti nel rispetto dello Stato di diritto e dell’indipendenza della magistratura. Ciò innalzerebbe il livello dello scontro tra le due parti, coinvolgendo una fetta rilevante delle finanze pubbliche, dato che il piano Next Generation EU destina alla Polonia ben 57 miliardi di euro (66 miliardi di dollari), di cui 23 consistenti in sovvenzioni a fondo perduto e 34 in prestiti.
Senza quel denaro, la Polonia rischierebbe di perdere il treno della ripresa e della transizione energetica. Una mossa che complicherebbe tremendamente il cammino verso il net-zero di uno dei Paesi europei più legati al carbone. Venire incontro a Bruxelles significherebbe invece rimangiarsi (quantomeno temporaneamente) quella retorica sovranista che ha fatto le fortune del PiS.
L’all-in della Commissione potrebbe insomma costringere Varsavia a una scelta dolorosa: svelare il bluff o andare fino in fondo. In entrambi i casi, a vincere non sarà né Varsavia né Bruxelles.