Il presidente Joe Biden non invocherà il privilegio dell’esecutivo nelle indagini sul ruolo di Donald Trump nell’assalto al Campidoglio dello scorso 6 gennaio. A metterlo nero su bianco è stata la consigliera della Casa Bianca, Dana Remus, che in una lettera all’archivista David Ferriero ha affermato che utilizzare il privilegio “non è nell’interesse degli Stati Uniti, e quindi non è giustificato per nessuno dei documenti”.
Il lasciapassare di Biden ha due importanti conseguenze: da un lato, è un passo obbligatorio affinché la National Archives and Records Administration possa consegnare al Congresso copie di documenti e conversazioni che Trump ha avuto con suoi alti funzionari e col suo team legale all’inizio di gennaio. Dall’altro, apre una finestra di 30 giorni in cui l’ex presidente può appellarsi a un tribunale federale per annullare l’ordine di produzione dei documenti, difendendo il suo privilegio.
Lo strumento del privilegio dell’esecutivo (executive privilege), non esplicitamente menzionato nella Costituzione, consente al presidente e agli altri membri del Governo di mantenere il riserbo su determinate comunicazioni di carattere confidenziale, proteggendole dallo scrutinio del potere legislativo e di quello giudiziario. Secondo Trump, i documenti richiesti dagli inquirenti per appurare il suo coinvolgimento nell’insurrezione hanno carattere chiaramente confidenziale, e quindi devono considerarsi inviolabili.
La decisione prelude a un’imminente battaglia giuridica sul contenuto e sull’applicazione del privilegio. Ad esempio, se questo si applichi solamente a un esecutivo in carica o anche a un Governo passato. O, ancora, se possa essere concesso anche in mancanza del consenso del presidente in carica.
La giurisprudenza sul punto non è consolidata, anche se i precedenti sembrano essere sfavorevoli al magnate newyorkese. Il landmark case in materia di privilegio dell’esecutivo è United States v. Nixon del 1974: in quel caso, la Corte Suprema intimò al presidente Nixon di consegnare il materiale probatorio richiesto da una corte distrettuale federale nell’affare Watergate (“Il presidente non può sottrarsi alla produzione di prove in un processo penale invocando la dottrina del privilegio dell’esecutivo, sebbene essa sia valida in altre situazioni”, recita la massima). Due settimane dopo la sentenza, Nixon si dimise e il suo posto venne preso dal compagno di partito Gerald Ford, che tra i primi provvedimenti della sua presidenza decise di concedere al predecessore una grazia incondizionata.
Nelle stesse ore in cui Biden annunciava il suo nullaosta, Trump e il suo entourage legale annunciavano battaglia, contando di aggrapparsi sulle “altre situazioni” tutelate costituzionalmente. “Se la commissione [congressuale] continuerà a richiedere altre informazioni privilegiate, adotterò tutte le misure necessarie e appropriate per difendere l’ufficio della presidenza”, ha tuonato Trump in una lettera a Ferriero.
Non è la prima volta che l’amministrazione Biden rinuncia al privilegio in relazione ai controversi fatti del 6 gennaio: lo scorso luglio, il Dipartimento di Giustizia aveva dato il via libera all’interrogazione dell’ex procuratore generale di Trump, Jeffrey Rosen, davanti alle commissioni del Congresso.