Un attentato alla Costituzione, due verità. Le conclusioni della Commissione Giustizia del Senato che ha indagato sulle pressioni fatte dalla Casa Bianca sul Dipartimento della Giustizia per cercare di rovesciare il risultato elettorale del 3 novembre 2020 sembrano una novella di Pirandello. Dopo mesi di indagini sono stati rilasciati due rapporti. Quello stilato dalla maggioranza democratica mette in risalto le animate discussioni dei vertici del ministero della Giustizia convocati dal presidente alla Casa Bianca che in tutti i modi voleva trovare un cavillo per cercare di annullare il risultato elettorale. L’ex presidente carico di rancore accantonò l’idea solo dopo che gli alti funzionari minacciarono tutti di dimettersi. Con loro anche l’avvocato della Casa Bianca Pat Cipollone e il suo vice.
Tutta un’altra storia, invece, le conclusioni contenute nella stessa indagine presentate dalla minoranza repubblicana, che sottopone una narrativa alternativa e parla “delle legittime preoccupazioni del presidente per le mancate indagini da parte dell’FBI e del Dipartimento della Giustizia sui brogli elettorali”.
Due indagini sullo stesso soggetto con conclusioni in netto contrasto nel giorno in cui al Congresso si è faticosamente trovato un accordo per rinviare a dicembre la discussione per innalzare il tetto del debito pubblico ed evitare così il drammatico scenario di un default. Sia ben chiaro il problema non è stato risolto, ma con la classica disinvoltura del Congresso i leader democratico e repubblicano del senato hanno deciso di passare una “leggina” e rinviare tutto a dicembre. Per ora la battaglia più pressante resta quella sulla proposta per il rammodernamento delle infrastrutture e del welfare, scelta prioritaria dell’amministrazione Biden. Durante questo titanico braccio di ferro tra democratici e repubblicani escono fuori i due rapporti della Commissione d’inchiesta sui tentativi della Casa Bianca per cercare di annullare il risultato delle elezioni.
Nelle conclusioni del rapporto preparato dai democratici l’allora Attorney General facente funzioni Jeffrey Rosen, il suo vice Richard Donoghue e altri dirigenti dell’amministrazione ebbero un drammatico confronto con Donald Trump per la sua intenzione di rimpiazzare Rosen con Jeffrey Clark, un oscuro funzionario del Dipartimento della Giustizia che era pronto a perseguire senza avere nessuna prova le false accuse dei brogli elettorali. Secondo la testimonianza dello stesso Rosen fatta alla Commissione, Trump molto risentito aprì l’incontro dicendo “una cosa che sappiamo è che tu, Rosen, non stai facendo nulla per ribaltare il risultato di queste elezioni”.

Dopo tre ore di tese discussioni, i vertici del ministero della Giustizia avvisarono il presidente che si sarebbero dimessi in blocco se lui avesse sostituito Rosen con Clark. L’avvocato Cipollone e il suo numero due minacciarono di fare lo stesso.
Uno dei suggerimenti di Jeffrey Clark a Donald Trump era quello che il dipartimento di Giustizia mandasse ai dirigenti dello Stato della Georgia una lettera ammonendoli delle “gravi irregolarità” nel voto in modo che il parlamento statale (a maggioranza repubblicana) potesse intervenire e cambiare l’esito elettorale. Jeffrey Clark pensava che la lettera avrebbe dovuto essere inviata anche in altri Stati, come la Pennsylvania e l’Illinois, dove i fan di Trump dopo la sconfitta stavano contestando i risultati. Ma Rosen e Donoghue si rifiutarono di far parte del complotto facendo infuriare Trump.

Le oscure manovre della Casa Bianca per cercare di delegittimare il risultato elettorale allarmarono anche i vertici militari tanto che il Capo di Stato maggiore congiunto, Mark Milley, era scosso dall’idea che Donald Trump e i suoi alleati avrebbero potuto tentare un golpe dopo la sconfitta elettorale. Per questo pianificarono – insieme ad altri alti ufficiali – vari modi per fermarli. È quanto emerge da I Alone Can Fix It, scritto dai giornalisti del Washington Post Carol Leonnig e Philip Rucker. Secondo i due reporter d’assalto in seguito alla riunione alla Casa Bianca che Donald Trump ebbe con i vertici del Ministero della Giustizia, il generale Milley e gli altri capi di stato maggiore parlarono di un piano che prevedeva anche le loro dimissioni – annunciate separatamente – pur di non seguire ordini provenienti dalla Casa Bianca che avessero giudicato illegali, pericolose o imprudenti. Tutti temevano un tentativo di colpo di stato da parte di Trump dopo la sconfitta di novembre alle urne avvalorata dopo la decisione post elettorale del presidente sconfitto di licenziare il ministro della difesa Mark Esper e delle dimissioni del ministro della Giustizia William Barr.
Che l’ex presidente tema che la verità sulle oscure manovre fatte alla Casa Bianca per cercare di ribaltare il risultato elettorale venga fuori lo si capisce dalla veemenza con cui Donald Trump si è opposto alla testimonianza di quattro suoi ex consiglieri convocati dal Congresso per deporre davanti alla commissione d’inchiesta che indaga sull’assalto al Campidoglio del 6 gennaio. I quattro stretti collaboratori dell’ex presidente, Dan Scavino, Kash Patel, Mark Meadows e Steve Bannon hanno ricevuto l’ordine di comparizione, ma l’avvocato dell’ex presidente ha presentato una lettera di opposizione alla loro testimonianza affermando che Donald Trump ha invocato il privilegio presidenziale. Inevitabilmente ne scaturirà una battaglia giudiziaria che finirà davanti alla Corte Suprema per capire se un presidente non più in carica possa invocare il privilegio presidenziale quando non è più alla Casa Bianca.