A poche decine di ore dall’apertura delle urne (alle 8 locali di domenica 26), con moltissimi voti già spediti per posta, non resta che attendere domenica sera (i seggi chiudono alle 18:00) per cominciare ad avere qualche idea precisa sul risultato delle elezioni tedesche per il Bundestag (Parlamento federale o, alla lettera, Dieta Federale). Con 47 partiti in lizza, 6.211 candidati e un processo di computazione macchinoso, occorrerà attendere lunedì 27 per ricevere dal Federal Returning Officer i primi risultati provvisori.
Qualche certezza e qualche sensata previsione può, tuttavia, essere avanzata.
La prima è che, per scelta annunciata da tempo, Angela Merkel – per i tedeschi agli inizi mädchen (ragazza) e poi mutti (madre) – non tornerà alla cancelleria. I connazionali le avrebbero volentieri rinnovato il mandato a tenere la barra della Bundesrepublik, ma li ha anticipati e nessuno si è sentito di spingerla a rivedere la decisione. Da quelle parti dimettersi, o non candidarsi, non si annuncia, si fa.
Il bilancio di sedici anni di potere e di 4 cancellierati consecutivi, ha, come è giusto, luci e ombre. Ma è difficile trovare chi ritenga che le ombre s’impongano. Ha gestito con moderazione e senso di conciliazione il ruolo tedesco negli affari europei e internazionali, da lei stessa fatto crescere in modo esponenziale. In materia economica e sociale ha fatto dimenticare di guidare un partito centrista conservatore (la stampa l’ha chiamata il miglior cancelliere socialdemocratico della Germania…); su diverse questioni internazionali ha assunto posizioni (il terrorismo islamista, i flussi dei richiedenti protezione internazionale, le sfide di Trump all’UE, incroci pericolosi della politica internazionale come Iran Cina Russia) posizioni non necessariamente in linea con l’atlantismo e mai esclusivamente in linea con l’interesse nazionale tedesco.

L’ispirazione profondamente cristiana e il senso della responsabilità personale le hanno fatto in più di un’occasione (si pensi alla decisione del 2015 sui rifugiati, o al recente Piano europeo di ripresa e resilienza) piegare al proprio volere un partito fondamentalmente conservatore. Il miglior pregio è stato di portare la Germania a giocare finalmente da guida dell’Ue, con il merito di non imporlo mai in maniera esplicita e pesante come molti suoi autorevoli colleghi di partito avrebbero voluto. Se mai agli europei, come in molti da anni chiedono, sarà concesso di scegliere il presidente dell’Ue, Mutti Europa potrebbe rivelarsi una scelta quasi obbligata. Giusto Draghi potrebbe contenderle il ruolo.
Il nuovo cancelliere potrebbe venire da un partito diverso da quello della cancelliera uscente: CDU (Unione cristiano-democratica, partito democristiano tedesco) CSU (Unione cristiano-sociale, partito democristiano bavarese). Armin Laschet, il candidato democristiano, arriva alle urne dopo due mesi di affanno. Tra il 19 luglio e il 19 settembre il suo indice di gradimento è andato in picchiata, salvo un tentativo di ripresa nell’ultima settimana pre-elettorale. Giovedì 23 è al 22%, ma il giorno prima era allineato al 21%, stessa posizione della settimana 13-19 settembre. Il distacco dal 36% che i democristiani vantavano a gennaio grazie all’apprezzamento popolare dato a Merkel (anche) per le misure anti Covid-19, è abissale. Molta parte del crollo democristiano, è spiegabile con la scandalosa gaffe di luglio di Laschet, filmata e fatta circolare tempestivamente dal testimone di turno.
Il 17 luglio, nel pieno dell’emozione nazionale per la violenta alluvione che tra il 12 e il 15 aveva devastato l’occidente tedesco facendo 172 vittime e 150 dispersi, il presidente della repubblica Frank-Walter Steinmeier commemorava l’accaduto a Erftstadt, 50mila abitanti e tante case distrutte o invase dalle acque. La cittadina è nel Nordreno-Vestfalia, il land che ha pagato alla furia degli elementi un pedaggio molto alto in termini di morti e dispersi, governato proprio da Laschet. Il presidente socialdemocratico parla con tono paterno e addolorato. Alle spalle, a qualche metro di distanza, Laschet si fa cogliere dall’occhio elettronico mentre sghignazza con sodali locali democristiani. Manca di rispetto al presidente, alle vittime, agli elettori; si dimostra un insensibile capetto da strapazzo che gigioneggia con i luogotenenti locali. Lo slogan della campagna elettorale – uno che sa governare l’importante e ricco land della Renania Vestfalia avrebbe ben governato la Germania – ne esce sbriciolato, perché l’episodio dice all’elettorato che ha di fronte un uomo inadatto a governare persino il suo land.

I tre dibattiti televisivi tra i candidati alla cancelleria, non hanno riportato a galla il democristiano, che li ha persi tutti. Laschet è stato percepito opportunista e poco convincente nelle pesanti accuse di “sinistrismo” lanciate ai socialdemocratici, gli spacciati ad inizio campagna elettorale che il 23 settembre nei sondaggi sono in vantaggio di 3 punti (25% contro 22%) dopo aver registrato dall’11 al 19 settembre un distacco di ben 5 punti (26% contro 21%). Per riemergere dai flutti, dopo il secondo confronto televisivo, Laschet ha presentato un programma economico dei primi cento giorni di cancellierato che non ha convinto nessuno, anche perché la sua conversione all’onda di economia verde che percuote l’Europa è stata messa a confronto con gli ostacoli legislativi e amministrativi che ha opposto alle pale eoliche negli anni di governo in Nordreno-Vestfalia, al favore manifestato per l’uso del carbone sino al 2038, all’avversione per il piano dell’Ue per la neutralità climatica definito “prematuro”. I sei pacchetti del piano contengono 19 promesse mirate a convincere gli elettori sul rischio che un governo di sinistra rappresenterebbe per il paese. Diversi gli ami gettati. Il più classico, la diminuzione delle imposte sui salari medi e bassi, ha fatto sorridere molti: CDU/CSU ha governato sedici anni di fila, e di tempo per quel provvedimento ne ha avuto a sufficienza! Più credibili e più in linea con la natura del partito democristiano gli aiuti promessi alle famiglie con bambini, le misure a sostegno di chi voglia accrescere la sicurezza personale in casa e al lavoro, l’installazione di mille telecamere l’anno nelle stazioni ferroviarie, norme penali più rigorose, aiuti agli agricoltori per mitigare le conseguenze dell’economia verde e del riscaldamento climatico.
Nella risalita degli ultimi giorni ha influito soprattutto l’impegno personale di Angela Merkel che ha agitato i credibili spauracchi del salto nel vuoto di un paese che sta bene come sta: i comunisti al governo, le maggiori tasse attese, la rinuncia a un personale politico che per più di un decennio e mezzo ha ben governato la Germania, sono argomenti validi per un elettorato in significativa parte anziano e conservatore.
Il terzo fatto da evidenziare alla vigilia del voto, è l’indecisione sulla formula di governo e su quando il nuovo cancelliere entrerà in funzione. Dopo le ultime elezioni per la Camera federale, per arrivare alla grande coalizione che ha governato sinora, ci vollero cinque mesi di trattative. E a capo tavolo sedeva l’autorevolissima frau Merkel!
Visti i sommovimenti accaduti nel corso della campagna elettorale (caduta non solo dei democristiani, ma anche dei verdi che ad aprile e inizio maggio viaggiavano al 25% delle intenzioni di voto e il 23 settembre sono al 16%), senza dare nulla per scontato rispetto al risultato del 26 sera, due sono le ipotesi. Se vincono i democristiani, avranno molti meno seggi rispetto a quelli che incassarono nel 2017 con il 32,9% del voto popolare. Saranno spinti a formare una nuova “grande coalizione” con i socialdemocratici, che non è detto stavolta accettino perché si sentiranno alternativi (nel 2017 ebbero solo il 20,5%). Se, come alla vigilia risulta nei sondaggi, al primo posto si piazzerà il candidato socialdemocratico Olaf Scholz, disporrà di più opzioni. La maggioranza cosiddetta “semaforo”, la più probabile, metterebbe insieme socialdemocratici (rossi), liberali dell’FDP guidati da Christian Lindner (ambra, il 23 settembre accreditati dell’11%), e verdi. Se sommando i seggi ottenuti non si arrivasse alla maggioranza, Scholz dovrebbe guardare anche ai neo-comunisti di Die Linke (“La Sinistra”, guidata da Susanne Hennig-Wellsow e Janine Wissler, accreditata del 6% dai sondaggi del 23 settembre), sempre che siano entrati in parlamento superando lo sbarramento del 5%. I gialli liberali accetterebbero la convivenza con i rossi? Riuscirebbe Scholz, che ha garantito di non accettare nel suo governo chi non abbia esplicitamente acconsentito alla Nato, ad ammansire “La Sinistra” sull’atlantismo?
Come nel 2017, si agita anche l’ipotesi “Jamaica”: se i democristiani battono al fotofinish l’SPD, o se Scholz non è in grado di realizzare una delle due ipotesi di governo, il pallino potrebbe finire nelle mani di Laschet, che si rivolgerebbe a verdi e liberali. Il governo si tingerebbe del tricolore nero, verde e giallo. In alternativa, a garantire la stabilità della Bundesrepublik provvederebbe il governo “Germania” con il tricolore nero, rosso, e giallo dei due maggiori partiti e dei liberali. Fuori da ogni ipotesi di coalizione, come si vede, il partito di “Alternativa per la Germania” (AFD), di Jörg Meuthen & Tino Chrupalla, rappresentativo dell’estrema destra tedesca, da un anno stabile nei sondaggi intorno all’11%.
Come capita in ogni sistema politico, il meccanismo elettorale ci mette del suo nel generare le difficoltà per la formazione del governo. Il proporzionale perfetto (con la soglia del 5% dei consensi per l’ammissibilità al Bundestag), calzava a pennello in un sistema politico sostanzialmente bipolare dove a competere erano i neri e i rossi, con i liberali battitori liberi, pronti ad allearsi con l’uno o l’altro vincente per dar vita a una maggioranza in parlamento. L’apparizione dei Grünen (Verdi), tra gli anni ‘80 e ‘90, fu una novità in linea con le rivendicazioni giovanili: il sistema faticò ad assorbirla, ma riuscì a farlo così bene da portare un leader verde, Joschka Fischer, a posizioni di grande rilevanza nel governo. Oggi, con sei partiti al di sopra del 10%, e uno di essi “intoccabile”, la frammentazione è cronica, portando a due conseguenze negative.
a- Cresce a dismisura il numero dei parlamentari: la Costituzione ne prevede un minimo di 598, ma non ne fissa il numero massimo. I membri del Bundestag uscente sono stati 709 (111 in più) e per quello nuovo circolano previsioni superiori a 900, confermando al parlamento tedesco la palma del più alto numero di membri, fatta eccezione della Cina: ma la Cina ha un deputato ogni 470.000 persone, la Germania ogni 117.000. Ne soffre la rappresentanza e l’efficienza (accade quando i deputati sono pochi, ma anche quando sono troppi); crescono esponenzialmente i costi collegati all’organo costituzionale; scende il valore politico dell’incarico. Responsabile della situazione è il meccanismo del doppio voto, ribadito nei suoi effetti dalla Corte costituzionale. L’elettore esprime due preferenze. Con la prima contribuisce alla scelta dell’unico rappresentante della sua costituency (sono 299 e fruttano grosso modo un parlamentare ogni 250.000 persone): il più votato va ad arricchire la dotazione dei seggi parlamentari del suo gruppo politico. Con la seconda preferenza sceglie, attraverso il proporzionale puro, su liste che inviano in parlamento i candidati nell’ordine previsto sulla scheda elettorale dai rispettivi partiti. È sul secondo voto che agisce l’impedimento della soglia minima del 5%. Ed è il secondo voto a fissare la percentuale di presenza parlamentare di ciascun partito. Con l’ampliarsi del numero dei partiti, e con l’allentamento della disciplina ideologica, gli elettori esprimono sempre più voti disgiunti. Siccome vale il principio che a rappresentare la volontà dell’elettorato debba essere il voto di lista, le discrepanze che tra i 299 favoriscono questo o quel partito, vengono sanate riequilibrando la situazione con l’innalzamento automatico degli eletti sino alla conferma complessiva delle percentuali rispettivamente ottenute da ogni gruppo nel voto di lista.
b- I governi, anche se per ora raggiungono l’obiettivo di preservare la stabilità del sistema, perdono in caratterizzazione politica, negano l’alternanza tra forze disomogenee, falsano il giudizio degli elettori (tutto il merito o il demerito va al partito del cancelliere). Soprattutto non rispettano la volontà di chi li elegge. Ciascuno dei 60,4 milioni di tedeschi chiamati a indicare il candidato alla cancelleria e stabilire chi debba occupare gli scranni della Camera dei deputati federale, ha chiaro il tipo di politica che vorrebbe prevalesse dopo le elezioni e per quella opzione si esprime. Per la maggior parte di essi, il suo eletto, sul piano delle alleanze, in realtà si comporterà in modo difforme dal mandato ricevuto. Il bisogno prioritario di raggiungere l’alchimia della governabilità nella stabilità, attraverso la mescolanza dei colori partitici, affida ai partiti, non agli elettori, l’ultima parola, e può portare avversari che hanno fatto la campagna elettorale l’un contro l’altro armati, a sedere da alleati nel governo. Il regime rigidamente parlamentare consente persino che a fare il cancelliere sia il secondo votato, nel caso il primo non formi un’alleanza con i voti necessari in parlamento. Il fatto che accada in molte democrazie parlamentari, non giustifica l’evidente deficit democratico insito nel meccanismo.
L’ultima osservazione spiega, almeno in parte, i dati diffusi dal canale televisivo NTV giovedì 23 settembre, sul gradimento degli elettori per il prossimo cancelliere. Scholz ne esce ampiamente gratificato con il 29%. Laschet raccoglie meno della metà del socialdemocratico, un miserando 14%, ampiamente inferiore anche al gradimento come cancelliera dato alla verde Baerbock (16%). Se le cose stanno davvero così, difficile immaginare un futuro per l’uomo che riuscirebbe nella doppia impresa di cancellare la sontuosa eredità di Merkel e regalare ai democristiani il peggior risultato del dopoguerra. Si aggiunge che, come si sarà notato, sommando le tre manifestazioni di gradimento, ben il 41% degli intervistati disdegna tutti i candidati alla cancelleria. Ovvio per l’11% che si ritrova nell’estrema destra, ma l’altro 30%? Ammesso che Scholz ce la faccia, sembrerebbe, da questi numeri che a volerlo a Berlino non sia neppure 1/3 dell’elettorato, benché il socialdemocratico racimoli 4 punti percentuali più dei presunti elettori del suo partito (25%).
Il quarto fenomeno evidenziato dalla campagna elettorale tedesca, è che le ondate umorali dell’elettorato non hanno tanto riguardato i partiti, quanto i leader. Detto in altro modo, il consenso si è concentrato sulle persone più che sui programmi e le ideologie espresse dalle tradizioni e dai programmi dei raggruppamenti politici. Nei termini con i quali si è espresso, il fenomeno è nuovo, nel senso che non ha riguardato il carisma (nessuno dei candidati alla cancelleria ne ha), ma l’affidabilità. Di Laschet si è detto, ma la leader dei verdi è passata per non dissimili forche caudine. Annalena Baerbock è candidata alla cancelleria il 20 aprile: trovava un partito che a metà marzo ha iniziato a schiodarsi dallo stabile 18% dei consensi, e lo porta a metà maggio ad appaiarsi con i democristiani al 25% per poi sovrastarlo e divenire il primo partito potenziale, una situazione che si sgonfia dopo un paio di settimane con un’inesorabile discesa verso il 16% del 23 settembre che, se va verso il doppio dell’8,9% ottenuto nel 2017, produce parecchio amaro in bocca visto come stavano andando le cose appena quattro mesi prima.
Baerbock ha provato a rilanciarsi, con una conferenza berlinese di cento delegati, il 19 settembre, una settimana prima del voto. Ma né il suo vibrante discorso sul contrasto al cambiamento climatico e sull’attacco concentrico che il partito starebbe subendo dai media (“il 75% delle menzogne diffuse in rete” durante la campagna, sono contro i verdi, ha fatto eco il membro dell’esecutivo Michael Kellner), né l’entusiasmo dei delegati, hanno cancellato dalla memoria degli elettori le menzogne che hanno fatto perdere a Baerbock in estate i consensi acquisiti in primavera. La quarantenne (ex!) candidata verde alla cancelleria ha truccato e abbellito il curriculum vitae ufficiale, e ha commesso ripetutamente plagio nel più recente libro: due peccatucci tipici dei politici che vogliono spacciarsi per quello che non sono, che l’elettorato regolarmente castiga.
Detto questo, la rimonta democristiana in corso dice che le emozioni durano settimane, al più mesi, mentre gli interessi sono uno zoccolo duro sul quale si costruisce il consenso politico duraturo. I tre candidati cancellieri hanno tutti avuto il loro momento potenziale di successo ma, come nelle gare sportive, decide lo sprint finale rispetto al comportamento tenuto in gara.

Resta da capire perché il prossimo cancelliere potrebbe essere l’attuale ministro delle finanze e vice cancelliere, il socialdemocratico Olaf Scholz. Probabilmente perché è il candidato alla cancelleria più simile a Mutti Merkel: è stato a lungo il suo vicecancelliere e il suo ministro delle finanze. Come lei appare un personaggio solido, che riesce a trasmettere senso di stabilità e continuità, insieme ad alcune certezze e garanzie delle quali l’elettorato sente il bisogno. Nelle inchieste d’opinionie, la preoccupazione prioritaria dei tedeschi viene dall’economia. Ci sono da curare le ferite inferte da Covid-19, e la gente teme le tasse per Covid (53%), che il costo della vita salga (50%), che crescano le imposte per restituire il debito Ue (50%). Da ministro Scholz ha gestito dossier di quel tipo, mostrando, insieme allo spirito sociale tipico del socialdemocratico, la moderazione e il pragmatismo che il tedesco medio esige da un cancelliere. Il politologo Ulrich von Alemann, dovendolo definire, lo ha etichettato «sobrio, efficace, pragmatico e serio». Non ha fatto molte promesse in campagna elettorale, salvo garantire continuità e impegno in questioni come l’aumento del salario minimo e alloggi più convenienti.
Il recupero democristiano degli ultimi giorni, la dice lunga sull’indecisione dell’elettorato nel consumare l’abbandono del partito di Angela Merkel. Non vanno dimenticate quattro grandi debolezze della scommessa Scholz, che potrebbero costargli un cancellierato che alla vigilia sembra acquisito. La prima è di essere il candidato dalla Spd, partito che non ha risolto nessuno dei conflitti interni e che da decenni ha perso, forse irrimediabilmente, l’aura che gli avevano conquistato i Brandt e gli Schmidt.
La seconda è che l’elettorato attribuisce i buoni risultati del governo uscente ai democristiani, non ai socialdemocratici: da buon ministro delle finanze nel governo Merkel, Scholz potrebbe essere un’eccezione rispetto al giudizio generale. Potrebbe.
La terza debolezza è che l’Spd, adamantino sulla questione Nato, non ha escluso di portare i rossi de “La Sinistra” al governo, se le condizioni lo richiedessero. L’ingresso di comunisti o apparentati nelle stanze del potere è inammissibile per molti tedeschi, specie nei land orientali della ex repubblica Democratica dominata per decenni dai comunisti di osservanza sovietica.
La quarta, certamente non meno rilevante, debolezza è il gran numero di indecisi, calcolati intorno a un terzo dei votanti (Frankfurter Allgemeine Zeitung arriva a 4 su 10): tra 20,1 e 24,6 milioni. È l’effetto “orfani di Mutti”, commentano gli osservatori. Una legge sociologica delle elezioni afferma che gli indecisi appartengono più al centro-sinistra che al centro-destra. Un’altra legge testimonia che gli indecisi alla fine tornano all’ovile da dove erano fuggiti. Guardando allo stato dei sondaggi, i fuggitivi appartengono essenzialmente all’ovile democristiano. Hanno a disposizione poche decine di ore per tornare alla rassicurante “puzza della propria stalla” come dice un vecchio detto tedesco; le utilizzeranno probabilmente in moltissimi. Nel frattempo, a sinistra gli indecisi si lancineranno sul come restare puri nella scelta tra i pragmatici di Olaf, i tosti di Die Linke, i salvatori verdi del creato.