Nella transizione che stiamo attraversando, questioni sempre nuove investono la dimensione, cruciale e controversa, della libertà. Per quanto la storia insegni che si tratti di un valore appartenente all’identità individuale e collettiva del genere umano, e ci si attenda che esso sia ormai consolidato, gli sviluppi non sono stati coerenti.
Nessun cammino, come quello in nome della libertà, è tanto tortuoso e difficile. La fiducia nel decorso del tempo come “storia della libertà” ha subìto incrinature e smentite. Il convincimento di Benedetto Croce è apparso intrigante ma troppo ottimistico. Ha avuto poche e saltuarie conferme. E anche queste rilevate a fatica, colte solo in controluce. Nessun concetto è stato discusso così a lungo e ha avuto, contro ogni aspettativa, alterne fortune.

L’orizzonte anche oggi non è rassicurante. Spesso la libertà è messa in discussione, disattesa ed umiliata, fraintesa e strumentalizzata. Più raramente tutelata e rispettata indipendentemente dal proprio tornaconto privato. È difficile trovare chi voglia prenderla per mano, accompagnandone la crescita.
Soprattutto, di questi tempi, è incerta la percezione del significato della parola libertà e delle sue implicazioni correnti. E ciò non solo tra filosofi, giuristi, esteti; nei dibattiti raffinati riservati a pochi, ma anche tra la gente comune, nella dimensione spicciola della vita quotidiana di tutti.
Eppure passato, presente e futuro chiamano in causa costantemente questa sfera; in modo poco appariscente o indiretto, oppure facendovi riferimento esplicito. Comunque, sempre suggerendo una connessione imprescindibile.
Il notevole interesse riscosso dal proposito di referendum sull’eutanasia legale (900 mila firma già raccolte), pur dopo l’intervento della Corte Costituzionale riguardante l’aiuto al suicidio nel caso Dj Fabo (art. 580 c.p.), testimonia l’attualità del tema, riassunto nella domanda suggestiva che accompagna l’iniziativa, “vuoi vivere libero sino alla fine?”. La bioetica invita a interrogarci sull’implicazione cruciale e finale dell’essere liberi, la disponibilità della vita stessa rispetto alla morte.
Gli squilibri climatici e i cambiamenti ambientali non riguardano soltanto territori lontani, con esiti che potrebbero lasciarci indifferenti perché privi di conseguenze dirette. Al contrario, essi sempre più determinano ripercussioni in tutti i settori del vivere: l’agricoltura, l’alimentazione, gli spostamenti, i contesti lavorativi ed abitativi. Per mille ragioni, si prospettano limiti allo sviluppo, serve cambiare stili di vita, il prezzo è la rinuncia a quote crescenti di libertà.

Il ritorno al potere dei talebani in Afghanistan ha riproposto l’antico dibattito sull’esportabilità della democrazia, intesa come sinonimo di libertà, un concetto che rinvia ai diritti individuali e implica una visione dei rapporti sociali, basata sul rispetto della persona, indipendentemente dal sesso o dalle opinioni. Così tutto il senso della lunga presenza occidentale nel paese e il suo esito infausto con il ritorno della dittatura religiosa sono stati scandagliati con il criterio della conquista-perdita della libertà.
La lotta alla pandemia è stata accompagnata nelle sue varie fasi da un vociare eterogeneo, composto da (molti) consensi ma anche da toni diversi (dubbi, timori, riserve, perplessità, distinguo), sino alle odierne critiche al green pass, e in genere all’obbligo vaccinale. Voci di intellettuali e gente comune, sintonizzate però sul medesimo registro, il timore di una riduzione delle libertà individuali, lo svuotamento della democrazia parlamentare, la virata liberticida dovuta alle misure antiCovid. Saremmo dunque – senza remore – alla dittatura sanitaria, alla tirannia vaccinale, alla schedatura nazista.
Non importa il motivo contingente. Cambia volta a volta, secondo le circostanze e le evoluzioni della politica, ma solleva obiezioni analoghe. Due anni fa, il ricorso (incostituzionale) ai dpcm (in luogo delle leggi) per limitare la libertà dei cittadini e applicare il lockdown. Poi l’eccessivo uso di decreti legge (irridevano al ruolo del parlamento). Ancora, le mascherine, il distanziamento, le limitazioni dei movimenti.
E siamo a questi giorni, con i dibattiti surreali sull’argomento cruciale: il green pass obbligatorio per lavorare/studiare e frequentare luoghi aperti al pubblico; la legittimità dell’obbligo vaccinale. Mano alla Costituzione (letta male, e stravolta), si denunciano manovre discriminatorie verso i cittadini, lesioni dei diritti di libertà (di non vaccinarsi), codardie dei governanti che mascherano l’assenza di responsabilità nel fissare una volta per tutte l’obbligo del vaccino.

Le attuali discussioni, nelle quali si sono inserite voci accademiche più o meno nobili, insegnano l’importanza di aver cura delle parole che si usano, una premura che dovrebbe accompagnare ogni riflessione, specie quando si tirano in ballo nozioni di antico prestigio, ma fragili, come appunto la libertà.
Eppure proprio alla libertà si fa riferimento sia da parte di chi impone regole, sia da parte di coloro che le contestano a vario titolo o ne prendono le distanze (mettendo d’accordo insolitamente esponenti di destra e sinistra). Il green pass è dunque misura “coercitiva e discriminatoria”, un attentato alla libertà personale, come tutti gli altri accorgimenti antiepidemia.
L’uso improprio e raffazzonato delle parole porta a equivoci, spinge i dibattiti su piani inappropriati. Bisognerebbe guardarsi da questa tendenza. Le regole, di qualunque tipo, stabiliscono sempre delle distinzioni tra le persone, ma esse non sono di per sé “discriminatorie” se supportate da ragioni plausibili. Pertanto è discriminatoria non qualunque scelta, ma soltanto quella priva di motivi e compiuta al solo scopo di comprimere diritti altrui e recare deliberatamente danno.
Per guidare, si richiede la patente. Non è discriminatorio nei confronti di chi non ha il documento, perché, per condurre un’automobile, serve aver fatto pratica, e conoscere il codice. Altrimenti si fa danno. Pretendere la patente da chi si mette al volante è dunque giustificato, non vessatorio verso chi non intende farlo. Inoltre averla non è un obbligo per tutti. Semmai è un onere, per chi voglia guidare, ma potrebbe anche non farlo. Se lo vuoi fare questa cosa qui, serve la patente; così come se vuoi andare al cinema, a teatro, in palestra, a un evento (a cui potresti anche non andare), serve il green pass.

Anche quando si parla di attività che sono un diritto e un dovere (il lavoro, lo studio) e non eventuali e rinunciabili, la possibilità di non vaccinarsi non può essere equiparata all’adempimento del dovere di farlo per tutelare sé e gli altri. La condizione richiesta (il tampone), certo di costo calmierato, non può essere perciò a carico della collettività.
Se stessimo più attenti alle parole usate, se mostrassimo prudenza nell’esprimerci, eviteremmo certi svarioni. La libertà è sempre soggetta alla legge, è regolata dal diritto, in modo che il suo uso individuale non nuoccia ad altri. Quella invocata dai no-green pass (che prima erano no-mascherine, no-lockdown, no-qualsiasi altra cosa) non è libertà ma arbitrio, una dimensione svincolata dal senso di responsabilità e dal dovere di solidarietà verso gli altri.
In materia di pandemia è particolarmente evidente il nesso tra libertà individuale e responsabilità collettiva. Abbiamo toccato con mano, vedendo tanti morti intorno a noi, quanto la dimensione della libertà sia intrinsecamente solidaristica.
Si è veramente liberi se si ha cura di sé ma anche del prossimo che avviciniamo. Rispettare le regole serve a difendere noi stessi dal contagio e ad un tempo a tutelare gli altri. Mai come nei contagi la libertà personale si nutre del senso di responsabilità collettiva.
Nulla di nuovo, se si ha rispetto delle parole, che hanno una loro storia e un loro contenuto. John Stuart Mill, teorico del liberalismo, difendeva la libertà come autodeterminazione ma avvertiva che essa non poteva essere evocata per legittimare comportamenti pregiudizievoli per gli altri. «Il solo scopo per cui si può legittimamente esercitare un potere su qualunque membro della comunità è per evitare danno agli altri» (Saggio sulla libertà, 1859).
Questo monito potrebbe aiutarci a diradare la nebbia che circonda il principio di libertà esponendolo a interpretazioni fuorvianti. Il limite alla libertà non è repressione ma la sua massima espressione.