La caduta di Kabul, unitamente alla prosecuzione della pandemia, continua ad avere un forte impatto nell’immaginario collettivo. Le immagini della fuga precipitosa dal paese delle truppe americane dopo un ventennio destano scandalo e preoccupazione. Sono fatti che emozionano e indignano. Che interrogano la coscienza di ciascuno non solo sulle scelte di politica internazionale, e sui rapporti con gli altri popoli, ma proprio sui valori che ci sono cari e per i quali siamo disposti a batterci.
L’esito infausto della missione afgana, che ha visto la partecipazione di più paesi occidentali, un esborso colossale di denaro e tanti sacrifici umani, ha confermato e forse rafforzato la convinzione che sia impossibile migliorare in modo significativo la condizione di paesi tanto diversi per culture, stili di vita, economia. In una parola che qualunque tentativo di “esportare la democrazia” sia destinato, prima o poi, all’insuccesso.
Troppo diverse le condizioni di base per coltivare tale fragile speranza. Come appunto è accaduto nei venti anni di presenza occidentale in Afghanistan, dall’iniziale sconfitta dei talebani nel 2001 sino ad ora, con il trionfale ritorno come se nulla fosse accaduto nel frattempo, e senza alcuna opposizione da parte del governo e delle truppe regolari. La presenza occidentale non è servita a costituire istituzioni capaci di resistere alla barbarie talebana.

La democrazia non è certamente merce di facile smercio, che possa essere trasferita da un paese all’altro, senza difficoltà o problemi. O che possa svilupparsi senza un mutamento delle condizioni di base del paese, a seguito di un percorso lungo e complesso. Ma troppo spesso si avverte, dietro lo scoramento suggerito dalle vicende afghane, una lettura pessimistica della storia, un’incredulità rispetto alle prospettive di cambiamento.
Si tratta di una sorta di presa d’atto delle radicali diversità che contrassegnano il mondo alle varie latitudini e che renderebbero impossibile “trapiantare” o far “germogliare” qualcosa di diverso in paesi altrimenti strutturati. La democrazia sarebbe il prodotto (soltanto) delle società occidentali, dunque un sistema impraticabile altrove, dove i costumi, le usanze, le idee sono di altro tipo.
Del resto ogni assetto giuridico è legato alle caratteristiche di una certa popolazione e non potrebbe essere diversamente. Il diritto all’autodeterminazione porterebbe alla conclusione di dover rispettare quella particolare configurazione – giuridica e sociale – che ciascun popolo ritenga di scegliere e ad evitare di influenzarla, o tanto meno fargliela cambiare a forza. Il fallimento afghano sarebbe dunque ampiamente prevedibile, e inevitabile.
Questo punto di vista non è affatto nuovo, anzi riemerge ogni volta che scoppiano crisi internazionali (in Africa, Medio-Oriente, ma non solo) che coinvolgano paesi e Stati mettendo in pericolo la vita dei cittadini e la stessa sicurezza internazionale. Dietro alle dotte discussioni su cosa si intenda per democrazia (regole giuridiche, istituzioni, modelli sociali?) e quindi sull’oggetto del contendere, c’è il problema della percezione della natura dei valori democratici e della loro interconnessione con lo sviluppo dei paesi.

In nessun contesto è stato facile superare la legge dell’uomo selvaggio e avviare un processo di cambiamento. Il rispetto dei diritti individuali, le regole di convivenza, i metodi di formazione del consenso non si sono affermati mai con facilità, senza nel contempo un mutamento in meglio delle condizioni della popolazione e il superamento di ostacoli che ne paralizzavano il percorso.
La “concezione relativistica della democrazia” come prodotto esclusivo di alcuni, estraneo alla mentalità e alle esigenze degli altri, sconta un’arretratezza di fondo nella conoscenza storica dello sviluppo delle istituzioni liberali e del modo in cui si sono affermate nei vari paesi, e dell’attuale approdo normativo e culturale in termini di condivisione.
Già la Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 faceva riferimento alla prospettiva mondiale di “una società democratica” e su questa base la successiva dichiarazione delle Nazioni Unite del 2000 prevedeva l’impegno “a promuovere la democrazia” e a rafforzare la capacità di tutti i paesi di “realizzarne i principi e le pratiche”. La democrazia è dunque un diritto di tutti i popoli perché si fonda su valori universali, che naturalmente possono trovare strumenti differenti di realizzazione.
Le ragioni del fallimento della missione occidentale in Afghanistan sono moltissime, ma tra queste non vi è l’estraneità della democrazia al popolo afghano. La circolazione degli istituti democratici è argomento complicato, che rimanda a numerosi quesiti. C’è un modo per favorire lo sviluppo democratico di altri paesi? Possono servire le armi a questo scopo? Ci sono soggetti o Stati che possano/debbano occuparsene e con una responsabilità maggiore?
Domande che non ammettono risposte semplicistiche, proprio considerando ad esempio la specificità del contesto afghano dominato da fattori contrastanti con l’intento, a prescindere dagli errori commessi, di creare una società democratica e libera. Basti pensare alla presenza di gruppi terroristici, al fondamentalismo islamico che pervade la società, alla ripartizione tribale ed etnica, all’incidenza della criminalità (l’80% dell’oppio mondiale è prodotto nel paese) e di conseguenza alla corruzione politica. In una parola, all’assenza del senso di “cittadinanza laica” (non condizionata da credi religiosi, e direttive familiari, etniche o criminali, in opposizione al senso dello Stato).

La diffusione della democrazia in Afghanistan presentava ostacoli troppo forti in questi fattori, che impedivano la nascita di istituzioni capaci di reggere all’assalto talebano. Eppure persino in quella terra lontana, così disperata e inerme sotto il terrore, c’è una specie di tesoro nascosto, che forse la presenza occidentale ha contribuito a non disperdere.
Nonostante la paura e le fatwa, la repressione e gli avvertimenti, piccoli gruppi di donne stanno avendo il coraggio di uscire in strada e reclamare il diritto di lavorare e di essere presenti nella società. Cose impensabili fino a ieri. Altri hanno chiesto di frequentare le scuole rivendicando il diritto all’istruzione. Sono piccoli segnali di cambiamento, persino di audace resistenza, ben più importanti di quella delle armi nella valle del Panshir.
In fondo, in Afghanistan l’età media è di poco inferiore ai 18 anni e ciò significa che c’è un’intera generazione nata dopo il 2001 che non conosce la legge talebana, non ha mai vissuto sotto di essa, e avrà difficoltà ad accettare il nuovo corso. Questo mondo ha solo apprezzato la possibilità, proprio grazie ai venti anni di presenza occidentale, di studiare, farsi curare in ospedale, uscire liberamente, rinunciare al burka, collegarsi ad internet, persino dedicarsi all’arte, confidare in una vita più dignitosa.
Sono facce, voci, corpi, ora terribilmente soli in quell’avamposto sperduto, senza più alcuno scudo, se non la nostra solidarietà: potrebbero essere loro, più che altre armi o munizioni, a dar corpo ad un’impensabile resistenza proprio in nome della democrazia e dei valori umani.