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September 4, 2021
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September 4, 2021
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Per l’Afghanistan talebano arriva la sfida più difficile: il riconoscimento geopolitico

Il nuovo regime dovrà affrontare dissidi che metteranno a dura prova la stabilità del Paese, dovendo fare i conti con una resistenza in tutte le sue forme

Angelo LucarellabyAngelo Lucarella
Il Presidente è fuggito: l’Afghanistan è diventato ufficialmente un emirato islamico

Scene di vita quotidiana in Afghanistan - Twitter

Time: 7 mins read

Oggi l’Afghanistan è nel pieno di un processo di risoluzione interno, ma anche esterno, nel cui complesso si inseriscono la ricerca di una stabilità complessiva del Paese e, soprattutto, le questioni dell’identità e del riconoscimento.

Quest’ultima è la questione più difficile da declinare per due motivi almeno: – da una parte la presa di potere talebana, post ritiro della coalizione capeggiata dagli statunitensi, per effetto di occupazione; – dall’altra parte, nuove generazioni cresciute a “suon” di studio e diritti umani che hanno costruito, nel frattempo, una società diversa dal passato e, ad esempio, maggiormente consapevole della dignità delle donne (ma ci sono anche uomini nuovi).

Sul primo fronte l’autoproclamato regimen ha un grosso problema: abilitarsi e accreditarsi sul piano del riconoscimento politico e geopolitico, perché non basta occupare sedi vacanti, ma serve saper esercitare un potere e farsi legittimare, in un modo o nell’altro, anche dalla maggioranza interna del Paese.

Occorre, altresì, dare risposta ad una domanda su tutte. L’Afghanistan mantiene inalterati i requisiti della Convenzione di Montevideo del 1933 (art. 1) popolo, territorio e potere di governo-sovranità unitamente alla capacità di intrattenere rapporti diplomatici?

Il Segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres informa una riunione di emergenza del Consiglio di sicurezza dell’ONU sulla situazione in Afghanistan – UN Photo/Manuel Elías

Siano di chiarezza due elementi di valutazione ulteriori: – l’Afghanistan esiste al di là ed a prescindere dall’autoproclamazione dell’emirato islamico delle ultime settimane e, pertanto, non ha necessità di riconoscimento altrui per la dignità di esistenza sul piano geopolitico; – l’Afghanistan deve per forza di cose ottenere una qualche forma di riconoscimento per non essere inattendibile sul piano della diversità di metodo rispetto al passato data l’ascesa talebana.

Quest’ultimo passaggio impone un’ulteriore considerazione. Un conto è l’atteggiamento talebano verso i cittadini quale elemento di riassetto ordinatorio della sicurezza interna benché armata (per come caratterizzata nella narrazione dell’informazione e di chi è tornato dal fronte); il ché, ci piaccia o no, è un fatto inevitabile stando allo sgretolamento delle Istituzioni democratiche avvenuto in pochi giorni.

Altro conto è se l’atteggiamento talebano si manifesti così radicale (non sul fronte religioso, ma in termini di lotta armata/terroristica nei confronti di altri Stati) che si mantenga, al contempo, quale connubio-condizione esistenziale di integralismo, appunto, statale-governativo.

È chiaro che, a seconda della validità delle ipotesi prospettate, la Comunità internazionale dovrà capire come comportarsi con i talebani che, attenzione, non esercitano un potere originario di matrice popolare, ma un potere di autoproclamazione per motivo di occupazione organizzata dei territori del Paese.

Allora, se la matematica è politica (cit. dell’eccezionale Chiara Valerio), anche la politica è matematica e perciò essa è decisione, metrica, calcolo, azzardo, ecc. facendo sì che ci si ritrovi dinanzi a un gioco stile scacchi: è ciò che si sta evolvendo nel Paese “Tomba degli imperi”.

Joe Biden durante il suo discorso sulla fine della guerra in Afghanistan – YouTube

Che il ritiro delle forze di cappello statunitense possa aver avuto delle sbavature è probabile. Che la presenza in Afghanistan prima o poi doveva venir meno era programmato da tempo. Che sia tutto un grosso pasticcio di politica militare è una visione delle cose a cui, con tutta franchezza, non mi sento di aderire.

È valutabile anche un’altra linea di pensiero (mi si consenta) in ordine all’abbandono della terra ora in mano talebana: creare l’instabilità politica per la presa di potere di soggetti che sul fronte della caratura politica, in una dinamica di interdipendenza economica con altre potenze confinanti e/o vicine, sono del tutto deficitari. Si tratta di mettere allo scoperto il vertice e dare l’impressione a quest’ultimo di essere arrivato in vetta senza avere, però, scalato la vera montagna: affrontare il proprio popolo e le forze di resistenza oltreché quelle che in Afghanistan rappresentano, di fatto, investimenti molto importanti (multinazionali che hanno interazioni diversificate tra Cina, Emirati, Usa, ecc.)

Le nuove generazioni e, soprattutto, le donne possono giocare un grande ruolo di riscatto? Hanno vissuto vent’anni, checché si dica, in libertà, coltivando studi e dignità del lavoro: il tutto frutto di affermazione della parità e dell’uguaglianza. Cosa c’entra quest’ultima considerazione rispetto alla questione geopolitica? Moltissimo.

Non dimentichiamo, nel complessivo e complesso quadro delle cose (senza presunzione di esaustività), che l’Afghanistan ha aderito ai principi della Dichiarazione universale dei diritti umani (come riporta il sito dell’ONU) dal 19 novembre 1946. Si dirà, malevolmente, ma nel 1946 non c’era il regime talebano.

Donne in Afghanistan – wikimedia

Se tu Stato riconosci un diritto, un valore, un principio fondamentale o sei capace di garantirlo oppure no. Questo è il punto ulteriormente principale su cui planare. Salvare il Paese, quindi, è in sé obbligo giuridico e umano per tutti i consociati dell’organizzazione mondiale. Di cosa si vuol parlare diplomaticamente con i terroristi? Non è chiaro. C’è una frase essenziale che orienterebbe, forse, l’agenda talebana (ammesso che ve ne sia una): “Ora si tratta di passare dalle montagne ai ministeri, occupando le sedi amministrative locali e nazionali, e di prendere in mano le redini di una nazione di 39 milioni di persone” (Cit. su IPSI).

Chiunque voglia impadronirsi di quel Paese, attore talebano od altro che sia (vedasi storia di Alessandro Magno in quel Paese), fa i conti con quel che è la resistenza in tutte le sue forme.

Qui c’è, quindi, da considerare che il ritiro statunitense e degli alleati ha innescato un processo a catena. Ma è ora che l’Afghanistan inizia a fare, concretamente, i conti con una nuova fase. La paura di Cina e Russia è che i talebani non siano molto ragionevoli sulla via della seta e sul fronte energetico. Il punto, ad oggi, è che sempre i talebani hanno il controllo di vaste aree del Paese salvo alcune come il Panshir che resiste, con determinazione, sotto la guida del figlio del famoso tagiko Ahmad Shah Massoud soprannominato, appunto, “leone del Panshir” (come riporta Focus, Massoud, guidando i mujaheddin con azioni “mordi e fuggi”, riuscì a far ritirare nel 1989 l’Armata rossa sovietica poiché  beffata con trappole esplosive e altri stratagemmi che trasformarono l’Afghanistan in un “Vietnam russo”).

Il punto di controllo nella valle del Panjshir. Il culto del più formidabile mujaheddin Ahmed Shah Massoud – Michal Hvoreck, wikimedia

I talebani, al netto delle brutali azioni che si apprendono dai media, dovranno stabilire quanto rischio vorranno assumersi rispetto al “controllare senza comandare”, nel caso di non legittimazione e di non riconoscimento sia interno (cittadini) che esterno (internazionale), oppure al “comandare senza controllare” nell’ipotesi mostrassero davvero scarse capacità di strutturazione del neo emirato.

Un fatto è certo. Nulla c’entra, in radice, la questione religiosa che, d’altra parte, fa solo eco al periodo che l’Afghanistan ha vissuto prima del 11 settembre 2001. Infatti, ucciso Massoud, il “leone del Panshir”, e crollate le torri gemelle di New York, i talebani hanno perso, all’epoca, tutto. Non è immaginabile vogliano correre lo stesso rischio nuovamente.

Si è davvero sicuri che il ritiro statunitense e delle forze Alleate, pur programmato, sia frutto di una maldestra operazione di rientro? Non mi sento di aderire a questa formula semplice e semplicistica, quantomeno, per tre motivi:

  • ora inizia la prova del nove per chi è salito sul piano più alto di Kabul;
  • ora inizia la prova di accettazione dei talebani (non come radice territoriale, ma come componente di presa del potere) rispetto alle nuove generazioni, alla nuova società nutrita di libertà e stili diversi, ma soprattutto rispetto alla questione dei diritti delle donne e di quest’ultime in termini di ruolo sociale;
  • ora inizia la sfida del chi è più puro tra le varie declinazioni di ortodossia religiosa che portano, inevitabilmente, sul piano della divisione – vedasi, ad esempio, il rapporto del Dipartimento di Stato americano 2017 sulla libertà religiosa in Afghanistan per come legato all’asse Isis-Taliban contro gli sciiti – tra sunniti e sciiti appunto (si dovrà pur iniziare a per fare i conti con gli accordi da stringere o meno con altri Stati).

Un ultimo passaggio occorre fare prendendo spunto dai dati economici dell’Osservatorio della Complessità Economica (O.E.C. in acronimo). Il Paese nel 2019 registrava: – esportazioni migliori verso gli Emirati Arabi Uniti ($1B), Pakistan ($544M), India ($485M), Usa ($35.6M), and Cina ($29.1M); – importazioni migliori da Emirati Arabi Uniti  ($1.62B), Pakistan ($1.18B), India ($891M), China ($600M) e Usa ($596M).

Dati ufficiali che descrivono come lo sviluppo dell’Afghanistan è per 3 casi su 5 dettato sulla via della diplomazia e dei buoni rapporti eterogenei tenendo conto, anche, che proprio nell’anno 2020 il primo partner commerciale (cioè gli Emirati Arabi Uniti) ha siglato un accordo petrolifero con Israele (ulteriore elemento che conferma quanto la questione religiosa, in realtà, diventa relativa nel gioco attuale). Non solo.

Sempre per l’O.E.C. la Cina, il Pakistan e l’India sono Paesi che esportano maggiormente verso gli Usa. Ciò significa che questi 3 Stati su 4 di quelli summenzionati fanno leva macro-economica in maniera, quasi, strutturalmente dipendente sui rapporti di titolo in acquisto con gli Usa (cioè prodotto in cambio di denaro).

Il presidente cinese Xi Jinping e la moglie – Flickr

Cosa diversa per gli Emirati Arabi Uniti che, differentemente dai Paesi appena menzionati, importa moltissimo da Cina, India e Usa. Un gioco di interdipendenza, quello descritto, che racconta come il Paese detto “Tomba degli imperi” non altro debba avere molta accortezza ed attenzione rispetto al come dare spazio politico ai talebani laddove, quest’ultimi, dovessero spostare l’asse delle reti su fronti anti-sviluppo.

Diritti umani, relazioni diplomatiche, conoscenza dei nuovi cittadini: tre direttrici su cui, improbabilmente, ci sarà una svolta nel breve periodo da parte talebana. Eppure sono temi di indifferibile portata. Aver seminato libertà non è un fatto umanamente destinato a cambiare le cose in Afghanistan? Non credo si possa dire che oggi si tratti di un semplice deserto lontano come Paese.

Di certo non era un Paese facile (almeno come apparato), ma, al netto del terrorismo, non sarà più a senso unico perché le nuove generazioni hanno saggiato il diritto di critica. Una preghiera al mondo Occidentale: non abdichiamo al concetto per cui gli Usa e le altre forze hanno solo fatto tappa per un dolce nel deserto in questi venti anni.

Ci sono morti, anche nostri connazionali, militari di altissima professionalità che hanno offerto se stessi mettendo in conto che si potesse trattare di una trasferta amara e di sola andata. La stessa sola andata che vorrebbero tanti cittadini dell’Afghanistan. Questo è vero. Ma è nostro dovere esserci in un modo o nell’altro. Aprire le porte al potere talebano può essere disarmante anche per loro stessi poiché quest’ultimi potrebbero non (ri)conoscere più il nuovo popolo e viceversa.

Cos’è l’identità se non il “riconoscimento pacifico” da parte di altri? Chissà che una parentesi non possa fare la differenza in questa storia tragica. Nel frattempo si salvino più persone possibili.

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Angelo Lucarella

Angelo Lucarella

Giurista, saggista, editorialista, ex vice pres. coord. della Commissione Giustizia del Ministero dello Sviluppo Economico

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