In qualche angolo della libreria deve esserci The Strawberry Statement: Notes of a College Revolutionary, di James S. Kunen. Racconta le proteste studentesche tra l’aprile e il maggio del 1968 alla Columbia University; ma di simili, anche nella californiana Berkeley, e poi a Nanterre, alla Sorbona, in Francia; alla Freie Universitat di Berlino, in Italia a Milano, Roma, Bologna…
Più del libro, forse è conosciuto il film (“The Strawberry Statement”) che lo sceneggiatore Israel Horowitz e il regista Stuart Hagmann ne hanno poi ricavato. Non più ambientato a New York, ma a San Francisco. Il perché lo spiega un titolo di testa: Hagmann ringrazia San Francisco, e si concede una nota polemica nei confronti di altre città “che hanno rifiutato di collaborare, ritenendo forse che le fragole siano irrilevanti”. Trasparente riferimento a New York, che però non è citata; nel romanzo di Kunen il preside dell’università a un certo punto, dice: “Per me le opinioni degli studenti sono come le fragole”.
In estrema sintesi, il film (che presentato al festival di Cannes vince il premio della Giuria), racconta di Simon (Bruce Davison), studente interessato solo al canottaggio, che si politicizza innamorato di Linda (Kim Darby), attivista del Movimento Studentesco. Proteste e manifestazioni nonviolente: è un piccolo classico la lunga sequenza accompagnata da “Give Peace a Chance”, scritta da John Lennon: centinaia di mani che ritmano “picchiando” sul parquet del campo di basket, mentre nel fumo dei gas lacrimogeni la Guardia Nazionale picchia a destra e manca gli studenti. Scene simili, chi oggi ha i capelli imbiancati, le ricorda bene: per averle vissute, non solo per averle viste al cinema.
Col senno di oggi si può discutere la causa, trovarla ingenua o sbagliata; ma il metodo, quello no: ispirato alla nonviolenza di Martin Luther King e Gandhi; di Cesar Chavez e di Bertrand Russell: cortei, digiuni, presidi, sit-in con conseguenti fermi ed arresti…
“Gesti”, se si vuole: per richiamare l’attenzione dei “distratti”; il corpo trasformato in strumento di lotta e iniziativa, diventa “notizia”; provoca dibattito, confronto. Certe questioni non possono più essere eluse. Il metodo nonviolento poi conquista simpatie e consensi. In fin dei conti, cosa sono mai state le imponenti marce da Selma a Montgomery? La lunghissima marcia da Delano a Sacramento di Chavez e dei lavoratori messicani e filippini per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla causa del bracciante agricolo sfruttato? Enormi “gesti” collettivi, come quello di migliaia di manifestanti che al Lincoln Memorial di Washington il 28 agosto 1963 ascoltano Martin L. King e il suo “I have a dream”… “Gesti”, come il pugno chiuso di Tommie “The Jet” Smith e John Carlos, alle Olimpiadi di Città del Messico. “The Jet” è primo, con i suoi 19,83 secondi, il primo atleta che abbatte il muro dei venti secondi. Ma tutti ricordano Smith e Carlos (arrivato terzo), per quei due pugni alzati, e la frase: “Perché dovremmo correre in Messico, per poi strisciare a casa?”. Ancora oggi di quell’immagine si stampano i manifesti.
Ci sono poi altri “gesti”. In più occasioni poliziotti in divisa, nel corso di pubbliche cerimonie, voltano le spalle all’uscente sindaco di New York Bill De Blasio; e ora una quantità di atleti si inginocchino. Non solo negli Stati Uniti.
Il “gesto” ha un inizio: 2016. Un ragazzo afroamericano disarmato viene ucciso dalla polizia. Alcuni giocatori di football americano, per protesta cominciano ad ascoltare inginocchiati l’inno americano: è il “Take a knee”. Comincia Colin Kaepernick, quarterback dei San Francisco 49ers. Un più di sempre sguaiato Donald Trump, durante un comizio del 2017, invita le leghe sportive professionistiche a “licenziare quei figli di puttana che si inginocchiano all’esecuzione dell’inno nazionale”. A questo punto come non inginocchiarsi? Campioni come LeBron James, Stephen Curry, Kobe Bryant e tantissimi altri danno il buon esempio; i Warriors rifiutano di partecipare alla Casa Bianca alla festa riservata ai campioni d’America; ecco poi i giocatori di baseball, e intere squadre: si inginocchiano negli stadi, una sfida: “Licenziateci tutti”. Arriva la solidarietà di dirigenti di leghe sportive e allenatori, da Steve Kerr a Gregg Popovic; Stevie Wonder si inginocchia sul palco, durante un concerto. In alcune manifestazioni anche dei poliziotti, in segno di solidarietà con i manifestanti. Dagli Stati Uniti un po’ ovunque, e anche in Italia. Ci sono calciatori che lo fanno, altri che si rifiutano. Non è obbligatorio, non è vietato. Le polemiche che puntuali si sono accese se sia giusto o sbagliato, se si debba “mescolare” sport e impegno civile e sociale, lasciano in tempo che trovano.
Certo, è un “gesto”; ormai diffuso negli stadi e nei campi di mezzo mondo. E’ nato come simbolo di libertà di espressione e di contrasto al razzismo. Dà fastidio? Se lo dà, allora è il caso di insistere. C’è chi sostiene che questo inginocchiarsi è diventato una sorta di moda, ha perso la sua carica di “provocazione”, si è trasformato in un conformismo dell’anticonformismo. E allora? Certamente chi non si inginocchia non è, per questo, un razzista, un suprematista, fautore del segregazionismo. Non lo vuole fare, non si senta obbligato, non c’è problema: resti pure ben impalato, la mano sul cuore, mentre suonano le note dell’inno.
A proposito di “gesti”. A volte, in Italia, accade che nel corso di manifestazioni pacifiche di persone che difendono il loro posto di lavoro, gli agenti di polizia schierati per ragioni di ordine pubblico, si tolgano l’elmetto: un segno di rispetto e solidarietà. Sanno che quei pacifici manifestanti potrebbero essere loro padri, fratelli, figli, e che non costituiscono una minaccia, un pericolo, un rischio. Un “gesto”; solo un “gesto”. Quando capita di vederne, chi scrive torna agli anni di quando anche lui manifestava: si porgevano fiori, in cambio si ricevevano manganellate. Quelle lontane “fragole”, tutto sommato, a qualcosa sono servite.