“Non è una crisi, ma la fuga da una situazione terribile”, ha detto Jen Psaki, la portavoce della Casa Bianca, cercando di attenuare la drammatica escalation di gente disperata che da settimane bivacca in Messico al confine con la speranza di poter entrare negli Stati Uniti.
La Casa Bianca non vuole sentire e usare la parola “crisi” e fa dei salti mortali dialettici per evitarla. La “trasparenza” promessa da questa amministrazione ad inizio mandato si sta appannando per il modo in cui viene gestito questo difficile problema. Ancora i giornalisti non sono ammessi nei “centri di decompressione” per vedere di persona come gli immigrati vengono trattati.
Per ora Biden ha inviato in Messico Roberta Jacobson, assistente speciale del presidente e coordinatrice della frontiera del sudovest. Con lei Juan Gonzales. La Jacobson è stata ambasciatrice in Messico dal 2016 al 2018. Altri funzionari del National Security Council sono andati invece in Guatemala nel tentativo di lanciare una campagna di dissuasione per quanti vorrebbero entrare negli Stati Uniti. Al confine sono stati impiegati anche i funzionari della FEMA, l’agenzia federale che interviene nelle emergenze umanitarie come per gli uragani o i terremoti, per costruire i centri di accoglienza. Solo al confine con il Texas sono “ospitati” 9 mila 200 adolescenti che in qualche modo sono riusciti ad attraversare la valle del Rio Grande. Una impresa non proprio difficile: due città una davanti all’altra. Alla riva nord c’è Corpus Christi, città da 200 mila abitanti negli Stati Uniti. Alla riva sud Matamoros, città messicana con più di mezzo milione di abitanti. In mezzo il fiume che le separa. I passaggi sui ponti del confine in città sono controllati. Dieci miglia a Est o dieci miglia ad Ovest è zona selvaggia. Basta attraversare il fiume e il sogno, per chi vuole entrare negli Stati Uniti, si materializza. E poi il confine si estende per 2 mila e 500 kilometri fino a Tijuana, attraversando New Mexico, Arizona e California. Biden ha detto che andrà di persona a vedere la situazione al confine, ma non ha specificato quando.
Questo dell’immigrazione sta diventando un serio problema politico. I repubblicani sono arroccati sul blocco dei permessi. Ma anche molti democratici degli Stati di confine, pressati dalla base che gli immigrati non li vuole. Donald Trump soffia sul fuoco del malcontento, “da una situazione di trionfo – ha detto l’ex presidente – siamo passati ad un disastro nazionale. Abbiamo lasciato un confine sicuro e ora non sono in grado di gestirlo”. Con l’ex presidente anche il sindaco di Laredo, altra città di confine divisa dal Rio Grande: dall’altra parte la messicana Nuevo Laredo. “Il confine non è sicuro. Gli illegali entrano ed escono quando vogliono. È falso dire che la situazione è sotto controllo”. E le elezioni di Mid Term sono a novembre dell’anno prossimo. Attualmente Biden non ha la forza politica per far passare una riforma. Per lui sta diventando un problema di credibilità dopo che in campagna elettorale ha presentato la sua politica come più umana rispetto a quella della precedente amministrazione, ma al confine con il Messico la pressione aumenta e l’emergenza si aggrava. Alcuni provvedimenti sono stati già implementati come un maggiore accesso per quanti fuggono dalle zone di guerra. Il problema più grave resta quello della regolarizzazione degli immigrati clandestini che già si trovano nel Paese. Nessuno li vuole, ma sono necessari per l’economia del Paese. Senza la regolarizzazione sono sottopagati, lavorano in nero non pagano le tasse.
Nei giorni scorsi la Camera ha approvato un provvedimento che permette la regolarizzazione dei Dreamer, immigrati illegalmente quando erano bambini al seguito dei genitori. Bisogna capire ora cosa succederà nelle prossime settimane al Senato.
Intanto a Washington l’inchiesta sulle violenze del 6 gennaio si arricchisce di altri particolari. L’ex procuratore federale, Michael Sherwin, che è stato quello che ha avviato le indagini sulle violenze al Congresso, intervistato da Scott Pelley, per il programma “60 Minutes” della Cbs ha ricostruito da testimone gli avvenimenti. Ha raccontato che per curiosità era andato al rally organizzato dai simpatizzanti di Trump “che sembrava un circo”. Lui era vestito con una tuta da jogging e cappellino da baseball e ha osservato come la gente fosse stata aizzata dalle parole di fuoco del presidente e istigata da alcuni squadristi in abbigliamento paramilitare che davano le direttive per l’assalto.
Sherwin, che era stato nominato da William Barr a dirigere la procura federale di Washington, dopo il cambio alla Casa Bianca ha presentato le sue dimissioni che sono state accettate la settimana scorsa. Sherwin ha detto di aver supervisionato l’incriminazione di circa 400 persone, quasi tutte rinviate a giudizio per resistenza all’arresto, e ingresso illegale in un palazzo federale, ma secondo lui, per alcuni potrebbe “allargarsi” a quella di sedizione, un reato molto più grave, “perché l’intento era quello di bloccare la certificazione della vittoria elettorale di Joe Biden”. “Gli inquirenti – ha detto Sherwin – stanno esaminando tutto e tutti, nessuno è escluso” .