È sicuramente troppo presto per valutare la politica scolastica del nuovo governo Draghi, in ordine alla direzione ed alla dimensione essa che vorrà assumere.
Circa la dimensione, considerato il breve orizzonte temporale che il governo sembra avere davanti, l’estrema ampiezza e disomogeneità della maggioranza che lo sostiene, nonché l’impellenza delle complesse soluzioni da trovare alla tragica situazione determinata dalla pandemia, non credo che questo governo possa porre mano ad una vera e propria riforma del sistema scolastico, così come per le altre grandi riforme annunciate.
Relativamente alla direzione si possono invece valutare già adesso alcuni aspetti sui quali è stato posto un particolare accento dallo stesso neopresidente: 1) l’impegno di assicurare una ripartenza a settembre che non sia la solita falsa o differita partenza di questi anni, 2) la volontà di puntare verso un maggiore investimento nell’istruzione tecnica, 3) la promessa di eliminare le ”classi pollaio”, 4) la rimodulazione verso un prolungamento, già dall’immediato, del calendario scolastico.

Sul primo aspetto sono da valutare positivamente i ripetuti propositi, sia da parte del Presidente del Consiglio che del Ministro Bianchi. La figura e l’esperienza di quest’ultimo sono altresì incoraggianti a tal fine. Ma la prospettiva di iniziare un altro anno scolastico con ancora più di 200.000 precari non può essere dissipata dall’annuncio generico di qualche decina di migliaia di assunzioni. Anche perché bisognerà districarsi con le operazioni di mobilità (già in ritardo e con alcune norme fortemente avversate dalle OO.SS) e, soprattutto, con il nodo delle diverse ottiche politiche e sindacali circa le modalità del reclutamento: stabilizzazione dei precari o accesso dagli ultimi concorsi pervicacemente voluti dal precedente Ministro e non ancora ultimati. La soluzione dipende dalla contemperanza di quattro esigenze, tutti legittime: principio costituzionale (art. 97) dell’accesso alla PA, rispetto della più recente normativa e giurisprudenza europea, tempestività della procedura, necessità di non disperdere un patrimonio di competenze comunque acquisite.
Sulla seconda questione non si tratta di rispolverare il vecchio dibattito tra cultura umanistica e cultura tecnico-scientifica. È quasi banale la risposta: mission della scuola è di crescere cittadini capaci di esprimere un pensiero critico e di contribuire al progresso sociale. Nel contempo il sistema di istruzione deve fornire prospettive occupazionali allo studente, formando lavoratori e professionisti che possano contribuire al progresso economico. Aver posto subitamente l’accento sull’istruzione tecnica è però un indizio della volontà di privilegiare le competenze tecnico-specialistiche più utili per il mercato del lavoro rispetto alle “competenze trasversali” più necessarie alla crescita della persona e della società nel suo complesso. Ma sul punto tornerò in conclusione di queste note.
C’è poi la questione delle “classi pollaio”: è stata posta assai debolmente, come un annuncio dovuto, così come hanno annunciato (e poi puntualmente non realizzato) gli ultimi precedenti governi. La questione è più ampia: rendere effettivo il diritto allo studio significa abbassare il rapporto tra docenti ed alunni, soprattutto nei contesti sociali più difficili. Ma più che parole di buona volontà sull’argomento servono numeri, numeri finanziari innanzitutto.
Sugli altri temi di più stretta attualità (esami di stato e di terza media 2021, sicurezza, next generation, recovery fund, vincolo quinquennale alla mobilità, contrattualizzazione delle problematiche) sembra riscontrarsi da parte del nuovo Ministro quantomeno un atteggiamento costruttivo di ascolto e di confronto con il mondo della scuola, cosa non scontata dopo l’esperienza vissuta con il Ministro Azzolina.

Appare invece quantomeno singolare il fatto che il Prof. Draghi, rompendo lo stretto riserbo che come presidente incaricato si era imposto durante le consultazioni, abbia voluto far trapelare con enfasi, come prima indicazione programmatica, la volontà di rimodulare il calendario scolastico prolungandone l’apertura già da quest’anno, al fine di recuperare gli apprendimenti persi in questi due anni scolastici.
Appare singolare, riferito ad una persona di grande intelligenza e vasta competenza complessiva come il nuovo Presidente del Consiglio, in ordine ad una duplice considerazione:
- Che di fronte all’impellenza di organizzare quelle urgenti misure sanitarie ed economiche dettate dalla pandemia (vaccinazioni, misure sociali di contenimento, questione dei ”ristori”, ripartenza dell’economia) si sia scelto prioritariamente un argomento che appare con evidenza non risolutivo di alcun problema, tanto che oggi appare già abbandonato a favore di una proposta più articolata e modulata senza prolungamento delle lezioni e con risorse aggiuntive;
- che tale misura venga avanzata come emblema di una maggiore attenzione al sistema scolastico e quindi di una sua valorizzazione, quanto mai urgente dopo le ulteriori devastazioni causate dal Covid 19.
Che con una ventina di giorni in più di lezioni in presenza (sempre che l’evoluzione della pandemia lo consenta) si possa recuperare almeno in parte il deficit didattico ed educativo accumulato da mesi e mesi di chiusura (in presenza) delle scuole nei due ultimi anni scolastici appare alquanto velleitario. Si può obiettare che poco è meglio di niente. E chi, nel mondo della scuola, esprime un’opinione contraria è solo perché non ha molta voglia di lavorare. Ma non è così.
A parte qualche caso di insegnante svogliato (ma i due termini sono un ossimoro perché un insegnate svogliato rispetto alla sua funzione semplicemente non è un vero insegnante) sono convinto che nessuno abbia realmente da obiettare alla prospettiva di stare qualche giorno in più in cattedra, se utile per gli studenti. Come è noto le lezioni in Italia terminano tra l’8 e il 16 giugno. Ma gli insegnanti continuano il loro lavoro “a scuola” tra esami, corsi di recupero, incombenze funzionali individuali e collegiali, fino al 30 giugno (primo ciclo) e fino al 16 luglio (secondo ciclo), data quest’ultima di decorrenza obbligatoria delle ferie. La questione allora è di comparare obiettivamente benefici e costi della soluzione proposta. Benefici minimi (praticamente solo simbolici) e costi alti (a prescindere dalle esternalità negative come, ad esempio, sul disastrato comparto turistico): sovrapporsi con il periodo degli esami e con quello di recupero dei debiti formativi, aumento di stress per alunni e docenti già fortemente colpiti dai danni educativi, psicologi e relazionali della pandemia in corso. Stress che la necessaria quanto improvvisata Didattica a Distanza ha aumentato. È vero che rispetto alla didattica in presenza (la vera scuola) la DAD è meno efficace ma non per questo si può affermare che sia stata meno faticosa. Anzi, tutto il contrario. Come può testimoniare chiunque (insegnanti, alunni, famiglie) in questi due anni l’abbia in qualche modo sperimentata.

Ancora più dubbi fa nascere l’assunto che costringere alunni ed insegnanti a stare qualche settimana in più sui banchi (confidando nella clemenza dell’anticiclone africano) significhi prestare più attenzione alla scuola e così valorizzarla.
Pertanto, escludendo (per il valore del personaggio) che la dichiarazione del Prof. Draghi possa qualificarsi come ingenuità, rimane in campo una sola altra ipotesi, e cioè che sia trattato di un “messaggio”, condito da un pizzico di propaganda: per migliorare la scuola occorrerebbe innanzitutto far lavorare di più (come tempo) studenti ed insegnanti.
No, la scuola si migliora e si valorizza innanzitutto cambiando in meglio le condizioni in cui studenti ed insegnanti devono lavorare.
Valorizzare la scuola significa metterla in condizione di produrre più valore. Valore educativo, culturale, formativo. Ma per produrre più valore bisogna innanzitutto potenziare il motore che mette in funzione la “macchina”: gli insegnanti. Gli insegnanti sono il perno della “comunità educante” (concetto avanzato introdotto anche nell’ultimo CCNL), sono il raccordo con gli altri soggetti (alunni, famiglie, educatori, Dirigenti scolastici e altro personale scolastico) che di quella comunità fanno parte. Se il perno non funziona bene la ruota non gira.
E così veniamo alla questione da cui non si può, per difficoltà di bilancio o per mancanza di coraggio nei confronti del resto della Pubblica amministrazione, sfuggire: qualsiasi intervento migliorativo della scuola non può prescindere dalla valorizzazione del corpo docente attraverso una retribuzione più adeguata accompagnata dall’obbligo di formazione continua.

Non si tratta delle solite rivendicazioni salariali di categoria, né di concedere un meritato premio per il lavoro che i prof. svolgono ogni giorno “con dedizione e sacrificio”.
Non è una semplice questione di “aumento” di stipendio, perché è più appropriato parlare di “adeguamento” per avvicinarsi alla media europea (gli insegnanti italiani percepiscono mediamente circa 6.500 € lordi annui in meno del resto dei colleghi europei) e sorprende come una personalità così emblematicamente europeista abbia perso l’occasione di indicare, come esempio di valorizzazione della scuola, l’intenzione di portare l’Italia in Europa sotto questo aspetto. E non è questione di merito perché, in ipotesi astratta, potrebbe anche non esistere e, comunque, non esistere per tutti gli insegnanti (ipotesi molto vicina alla realtà).
Si tratta invece di migliorare la funzionalità della scuola, conferendo maggiore dignità agli insegnanti.
Un adeguamento retributivo, accompagnato dall’obbligo formativo è un prerequisito di ogni serio intervento sul sistema scolastico per almeno quattro motivi:
- gli insegnanti sarebbero più motivati. Ci sono professioni che per essere ben esercitate richiedono non solo l’astratta competenza professionale ma anche grande passione, dedizione, umanità, empatia. Una di queste è il medico. Un’altra è l’insegnante. Si “è” medici e si “è” insegnanti. Non “si fa” il medico e non “si fa” l’insegnate. Se non ci sono i requisiti suddetti non solo non si è buoni insegnanti, ma soprattutto si rischia di essere cattivi educatori. Cosa assai grave se si considera che ci si relaziona con persone in età evolutiva. Ma avere una “vocazione” non equivale ad essere dei “missionari”. Quest’ultimi sono nel settore del volontariato, gli insegnanti in quello delle professioni qualificate.
- Gli insegnanti sarebbero più aggiornati e più competenti. Fattori indispensabili oggi come non mai. Si pensi alle nuove didattiche (digitali e non), alle capacità di gestire la classe (cosa sempre più difficile), al recupero di una formazione pedagogica che negli anni si è persa a vantaggio di quella strettamente curricolare (soprattutto nella scuola secondaria), all’acquisizione di competenze e sensibilità per rendere la scuola realmente inclusiva.
- Si riconoscerebbe ai “prof” un ruolo sociale che negli anni si è sempre più svilito. Ed aumentare la considerazione sociale dei docenti equivale ad aumentare il rispetto dell’istituzione scuola. Soprattutto da parte di quei genitori, sempre più numerosi negli ultimi anni, invasivi e devastanti (in qualche caso estremo anche violenti) con cui ci si deve confrontare quotidianamente. La famiglia ha visto progressivamente diminuire il proprio ruolo di agenzia educativa e di ambiente affettivo. Ciò ha portato tanti mamma e papà a comportarsi, nella fallace convinzione di recuperare consenso e ruolo, come difensori di ufficio dei figli, veri e propri sindacalisti a prescindere, indebolendo così il prestigio e l’autorevolezza (oltre che di loro stessi) degli insegnanti e quindi l’efficacia della loro azione.
- Si allargherebbe la base di selezione alla professione. Il ritornello che bastano i concorsi (ennesimi e con procedura e criteri sempre diversi) per garantire la qualità dell’accesso alla professione è una mezza verità. A parte la considerazione che in tanti sono diventati bravi docenti acquisendo (dopo la laurea) competenza ed esperienza con capacità e passione seppure in una situazione di precariato pluriennale, se non si rende veramente appetibile questo lavoro (ripeto: per retribuzione e considerazione sociale) tante belle menti, terminato il percorso universitario, preferiranno percorrere altre strade con più opportunità di carriera e di guadagno (magari trasferendosi all’estero) piuttosto che rivolgersi all’insegnamento, dovendo oltretutto continuare a studiare per la preparazione a concorsi sempre più complessi e selettivi.
Dare più valore al lavoro degli insegnanti significa, in altre parole, aumentare la loro produttività e, quindi, mettere in condizione la scuola di iniettare più valore aggiunto alla società, sotto l’aspetto educativo, culturale, formativo.

In conclusione, voglio tornare sull’argomento, sopra accennato, della maggiore attenzione da rivolgere all’istruzione tecnico-professionale.
È sbagliato fare processi alle intenzioni ed è ovvio che le idee delle persone intelligenti evolvono nel tempo, maturando anche in virtù del mutato contesto e del diverso ruolo che quelle persone ricoprono. Ma se le idee del Prof. Draghi sono rimaste sostanzialmente identiche a quelle espresse, per esempio, nella Lectio Magistralis tenuta dall’allora Governatore della Banca d’Italia alla facoltà di Economia dell’Università La Sapienza di Roma il 9 novembre 2006, dal titolo “Istruzione e crescita economica”, qualche perplessità è giustificata.
L’intervento è tutto rivolto ad esaltare il valore dell’istruzione come fattore di produzione, dalla qualità del quale discende un aumento di produttività economica. Considerando l’argomento dell’intervento ed il contesto, le affermazioni del Prof. Draghi appaiono condivisibili nel merito. Ma appare significativo anche che nella decina di cartelle della Lectio non ci sia un mezzo rigo di accenno a quelle che sono le altre funzioni del sistema di istruzione, accanto (e probabilmente sopra) a quella di formare lavoratori qualificati.
Può rivelarsi sintomatico anche questo specifico passaggio: “Nella scuola può essere utile aumentare la concorrenza fra gli istituti, sia nell’ambito pubblico sia in quello privato, con modalità di finanziamento che da un lato premino le scuole migliori e dall’altro trasferiscano risorse direttamente alle famiglie per ampliarne la possibilità di scelta”.

Se le opinioni del Presidente del Consiglio sono rimaste le stesse di quell’intervento siamo in piena ottica mercatistica, quella della competitività tra scuole (in particolare pubblica e privata) con premio economico finale, e della scuola fucina (più o meno passiva) di quei profili professionali che il mercato richiede.
Scuola e mercato, a mio avviso, non hanno (non devono avere) quasi nulla in comune. Anzi, per molti aspetti sono agli antipodi. Ma questo è un altro discorso.
Discorso assai complesso e sul quale sarebbe opportuno che in Italia si aprisse finalmente un reale e profondo dibattito per arrivare ad una sintesi che, equilibrando i diversi punti di vista (nel duplice significato di diversità di opinioni e di diversità dei punti di osservazione), chiarisca definitivamente e senza estemporaneità quali debbano essere funzione e caratteristiche della scuola nella nostra società nel nostro tempo (e in vista di quello futuro), acquisendo così la misura del valore strategico e prioritario che una riforma del sistema scolastico riveste per tutto il sistema sociale ed economico italiano.