
É nella lista dei photo-reporter italiani più noti al mondo. Una vita a girare, e tanti riconoscimenti ottenuti per il suo lavoro. I due World Press Photo vinti nel 1995 e nel 1996 gli hanno sicuramente dato una fama internazionale, ma di Francesco le persone dovrebbero imparare a vedere non tanto i premi, bensì il suo forte impegno civile, e la grande capacità narrativa. Le sue fotografie parlano infatti di un talento naturale straordinario, e di una sensibilità che talvolta nella vita diventa purtroppo una condanna. Francesco ha molto sofferto a vivere fotografando. Abbiamo un legame amicale speciale, e mi ritengo fortunata per questo: tra noi parliamo poco di lavoro. Quando ci sentiamo, ci raccontiamo l’un l’altro semplicemente come si possono raccontare due amici: parliamo soprattutto di vita privata, con gioie e problemi da affrontare. Anche se non me lo ha detto, so che mi ha concesso questa intervista perché ha intuito che ci tenevo davvero molto a parlare professionalmente, una volta tanto, anche io di lui.
Nasci a Napoli il 5 maggio 1949: iniziamo nel ricordare quanto ci hai vissuto, Francesco, e se ci torneresti a vivere.
“A Napoli ci ho vissuto fino all’età di 22 anni, anche se avevo vissuto un anno e mezzo tra il 1968 e il 1969 a Firenze. Ci tornerei a vivere, sì, ma solo se si creassero le dovute condizioni. Posso tranquillamente affermare che è sempre rimasta in me: non ho mai tagliato il cordone ombelicale con le mie origini”.
Andiamo subito al centro della nostra chiacchierata: quando la Fotografia irrompe nella tua vita?
“Sin da giovanissimo, direi… ma la guardavo soprattutto perché raccontava luoghi esotici o inesplorati attraverso le pagine del settimanale Epoca. Walter Bonatti è colui che agli esordi mi ha rapito l’immaginario”.

La tua prima copertina? Te la ricordi? Che emozioni hai provato?
“Certo che me la ricordo; fu la foto della “Mattanza” in Sicilia, pubblicata sul Sunday Times magazine on July 13, 1980 (The taking of a tuna). Fu un’inaspettata sorpresa, la quale mi fece capire però che ero sulla giusta strada, e mi ripagava per i miei tanti sacrifici fatti fino a quel momento, esortandomi ad andare avanti nelle mie convinzioni professionali”.

Il 1980 è un anno molto importante per la tua carriera. Possiamo affermare che probabilmente inizia qui il tuo percorso internazionale? Quanto segna l’animo umano una esperienza del genere?
“Il 1980 mi vede clandestino in Afghanistan a seguito dei mujaheddin che combattevano l’esercito sovietico dell’Armata Rossa, dopo l’occupazione di quel Paese. Percorro con loro 1200 Km a piedi. Mie le foto dei primi soldati della Stella Rossa caduti in imboscate. Avevo già raggiunto alcuni riconoscimenti con lavori precedentemente realizzati, ma a livello internazionale mi fece in effetti conoscere come fotografo di guerra, in grado di cimentarmi anche in quel campo. Naturalmente quella prima esperienza credo abbia molto influito nel prosieguo della mia professione, e mi ha portato sicuramente a guardare alla vita quotidiana con disincanto, considerando che esistono tragedie e miserie di cui tener conto, che vanno ben al di là di quelle che sono le convinzioni nel nostro mondo ovattato”.

Nel 1982-83 realizzi nella tua Napoli un reportage sulla camorra, pubblicato dalle maggiori testate giornalistiche, nazionali ed estere. Sempre a Napoli qualche anno prima per The Sunday Times magazine avevi realizzato un reportage sul contrabbando di sigarette dall’interno dell’organizzazione contrabbandiera. Quali sono stati i segreti per potersi inserire in un contesto del genere? E quali i pericoli?
“Il reportage sul contrabbando di sigarette a Napoli lo faccio nel 1978; più che pericoli, ha comportato la determinazione di non mollare, e la consapevolezza che nulla era come immaginavo. Ho imparato che non è facile fare bene questo mestiere, se si considera che ho trascorso un mese intero con 25 caffè al giorno, tra una chiacchiera con uno, con un altro, e altri ancora, pur di ottenere l’accesso a realizzare una storia su quella attività. Alla fine, se sono riuscito a portare a termine quello che avevo in mente, è stato solo grazie alla mia caparbietà. Non credo ci siano stati pericoli derivanti dai personaggi con cui mi rapportavo, ma se pericoli esistevano, quelli erano legati a condizioni esterne. Il rischio di un naufragio, ad esempio: sovente si era lontani dalla costa anche 70-80 miglia off-shore. Il reportage sulla camorra, realizzato da me successivamente, e che mi ha dato maggior visibilità professionale rispetto alla vicenda del contrabbando, ha comportato sicuramente il pericolo di restare invischiato in un conflitto a fuoco o in incidenti per via di qualche inseguimento”.

Tante sono le vicende di guerra che hanno avuto il tuo sguardo. Nel 1983 sei inviato sul fronte Libanese da Epoca, e segui il conflitto in atto fra le fazioni palestinesi; i pro siriani del leader Abu Mussa, e Yasser Arafat e i suoi sostenitori. Sei l’unico foto-giornalista a documentare la caduta di Beddawi (campo profughi), ultima roccaforte di Arafat in Libano. Seguirai poi le vari fasi della guerra civile libanese, fino al 1989. Nel 1994 realizzi per il tedesco Stern magazine un reportage sui coloni israeliani oltranzisti. Nell’aprile 2002 sei tra i pochi ad entrare nel campo profughi di Jenin, sotto coprifuoco durante l’assedio israeliano alle città palestinesi. La questione palestinese è infatti uno degli argomenti che come fotogiornalista hai sempre seguito. Cosa pensi del conflitto Israele contro Palestina? Si arriverà mai secondo te ad un armistizio definitivo?
“Purtroppo ciò che ho avuto modo di osservare sin dagli inizi del mio interesse per i palestinesi, sia nei Paesi che li ospitano in quanto profughi, sia nei territori occupati da Israele, della West Bank e Gaza strip, è il continuo deterioramento dei rapporti fra i due popoli, tale da impedire una possibile soluzione. Ho anche seguito del resto tutte le fasi della prima “Intifada“ 1987 – 1993 e la seconda 2000 – 2005. Sono stato ferito tre volte durante gli scontri. La questione la conosco bene in prima persona, e penso che sarà difficile, anche alla luce degli ultimi sviluppi politici internazionali, che Israele rinunci a ciò che ha conquistato militarmente finora”.

Torniamo per un attimo a ricordare il 1989: sei inviato in Afghanistan dal Venerdì di Repubblica e ancora clandestinamente a seguito dei “Mujahiddin” per raccontare la ritirata sovietica. Tornerai in quelle aree di nuovo nel 1998 inviato dal settimanale Panorama, con l’intento di incontrare Osama Bin Laden. Intento non andato a buon fine a causa dell’inizio dei bombardamenti americani. Quale il tuo punto di vista sull’ISIS e l’attentato alle Torri Gemelle?
“Considero la creazione dell’ISIS il frutto di una serie di errori da parte dei Paesi occidentali, e soprattutto degli Stati Uniti, per via di una concezione politica errata: voler esportare un modello di democrazia in Paesi che hanno una cultura diversa dal nostro vivere. É questa politica sbagliata che ritengo abbia comportato l’attentato alle “Torri Gemelle”, anche se rimangono – dal mio punto di vista – molti lati oscuri in questa vicenda, compreso l’attentato al Pentagono, dove non vi è stata apparentemente riscontrata nessuna traccia di un aereo abbattutosi su quella struttura. Inoltre, fa molto pensare, in suolo americano, l’inefficienza della sicurezza da parte di chi era proposto alla sua difesa, come pure molto strano il rapporto tra le istituzioni e i membri della Famiglia Bin Laden (i soli autorizzati a partire, dopo l’attentato)”.

Veniamo alla Guerra del Golfo. Nel 1990 sei in Arabia Saudita nella prima “Gulf War” con il primo contingente di Marines americani dopo l’invasione irachena del Kuwait. Seguirai tutto il processo dell’operazione “Desert Storm” e la liberazione del Kuwait 27 – 28 febbraio 1991. Nei tuoi viaggi attraverso il Medio Oriente, in più occasioni hai focalizzato il tuo interesse a raccontare i vari aspetti dell’Islam, dal Pakistan al Marocco, Sempre negli Anni 90 segui le varie fasi dei conflitti balcanici. Insomma: sei sempre stato tra le guerre più importanti della Terra. Secondo te, il Mondo la vuole la pace?
“Non credo che il mondo sia interessato alla pace, e questo lo penso per innumerevoli motivi. L’industria delle armi è tra le più fiorenti; gli interessi in certe aree del mondo sono enormi; in alcuni Paesi soprattutto africani ci sono guerre per procura pur di approvvigionarsi quelle materie prime che tanto interessano lo sviluppo tecnologico occidentale. Oggi, con la Cina vera potenza economica e militare, questi contrasti sono ancora più accentuati”.

Nel tempo, come sono cambiati secondo te i conflitti?
“Coprire i conflitti negli Anni 80 – 90, almeno quelli in cui erano eserciti regolari a scontrarsi, era già diventato molto più difficile rispetto al raccontare i conflitti precedenti. La fine della guerra in Vietnam ha cambiato le regole del gioco: troppa libertà agli organi di stampa – fotografi compresi – era deleteria, e spesso si ritorceva contro questa libertà di raccontare, e l’opinione pubblica agiva di conseguenza. I conflitti successivi hanno visto i fotografi, i video operatori e gli altri, diventare embedded, e guidati – così come controllati – a seconda delle esigenze del momento. Inoltre, in molte parti dove vigeva una guerra irregolare, i giornalisti e i photo-reporter sono diventati loro stessi il bersaglio da eliminare. Comunque oggi, rispetto a quegli anni, si è anche smesso di raccontare, e i fotografi cercano nelle loro foto soprattutto l’estetica, in quanto essa dev’essere l’aspetto trainante nella partecipazione nei concorsi – al World Press Photo così come al Sony Award – per poi vincere”.

C’è così tanto da dire sulla tua carriera, Francesco: ti sei occupato di moltissime vicende di cronaca. Nel 2000 realizzi anche un reportage sul “Codice Kanun”, l’antica legge della vendetta di origini medievali nella società albanese. In Italia ti sei occupato spesso di casi di mafia, ma anche di eventi come il Palio di Siena che ti è valso il primo premio al World Press Photo 1996. Dal 1997 l’obiettivo è puntato sulla Sardegna fuori dagli itinerari turistici, tra il sociale e le tradizioni. Se dovessi descriverti in poche parole, che tipo di interprete del reale sei, e degli interessi tematici fotografici che hanno dominato la tua vita di photo-reporter, essi sono stati più frutto del caso, o della volontà personale di indagare specifici fatti?
“Credo che nel mio mestiere siano presenti entrambi gli aspetti: esistono storie che nascono nella necessità di conoscere in prima persona ciò che accade, essere presente sul posto ed osservare con i propri occhi e ascoltare con le proprie orecchie; ci sono però anche storie che nascono dalla casualità, appunto come il “Codice Kanun” che hai ricordato, di cui sono venuto a conoscenza in quanto mi trovavo proprio su quel territorio poiché ero impegnato in un’altra storia da raccontare. Viaggiare per il mondo aiuta molto a capire il reale: è sufficiente saper guardare intorno per scoprire realtà non immaginate. Comunque, sono sempre stato un fotografo umanista, e sono interessato soprattutto alle storie degli uomini, belle o brutte che siano”.

Nel 2007 sei invitato dal Governatorato di Sakhalin (Russia), l’isola ex colonia penale raccontata da Checov, per un lavoro fotografico sul territorio, illustrando la vita e le attività produttive, a seguito della scoperta di ingenti giacimenti petroliferi. Lavoro divenuto una mostra e un foto libro editato in Russia. Che cosa pensi della figura politica di Putin?
“Di Putin penso che sia la massima espressione della nomenclatura comunista sovietica; il prodotto di tale cultura in veste pseudo democratica. Al contempo però, penso anche che sia un politico capace, se confrontato con alcuni capi di stato o primi ministri delle nostre parti. L’Occidente dal mio punto di vista, sembra non più in grado di produrre politici di razza. L’era dei Winston Churchil, degli Harry Truman, di Konrad Adenauer, etc, sono tramontati da tempo”.

Tanti i riconoscimenti che hai avuto in carriera, tra cui nel 1995 il World Press Photo, che ti conferisce il terzo premio Day in the Life per il “Neapolitan Wedding story”; nel 1996 sempre il World Press Photo ti conferisce il riconoscimento, ma stavolta il primo premio per il Palio di Siena.
“Tutti coloro che mi intervistano ricordano i World Press Photo che ho vinto, ma tu che mi conosci sai che io li considero incidenti di percorso. Non ho mai amato partecipare ai premi o ai photocontest. Al WPP partecipai solo perché fui invogliato dalla redazione fotografica dell’Observer magazine, ma non vinsi con il lavoro che tutti pensavano avrebbe ricevuto il giusto riconoscimento. Il WPP l’ho vinto due volte di seguito, poi ho rinunciato. Comunque avrei voluto, e vorrei ancora vincere, il Premio Eugene Smith: perché amo quel fotografo, lo sento molto vicino al mio essere, e poi perché è un premio che conta, in cui è la Fotografia a vincere. Non so, comunque, se mai vi parteciperò”.
La Fotografia dove si sta dirigendo, Francesco? Quale frontiera la aspetta?
“Dove si stia dirigendo la Fotografia è difficile prevederlo, anche se a volte – direi spesso – mi chiedo se la Fotografia esista ancora”.

Per concludere: una vita privata professionale avventurosa, ma anche una vita privata movimentata. Hai 3 figli da tre donne diverse. Adesso vivi in una piccola cittadina nel Sud Italia, dopo una vita passata da vagabondo.
“Oggi vivo in un luogo un po’ al margine da tutto: dal mondo della fotografia in primis, ma anche dell’informazione. Ciò che maggiormente mi manca sono i viaggi, quelli che ti fanno girare il mondo, e che ti fanno conoscere ciò che non hai mai incrociato. I viaggi, associati all’esperienza professionale e alla maturità, mi hanno insegnato come uomo a rispettare gli altri uomini (anche se a volte mi scaglierei istintivamente contro coloro che hanno fondato la loro esistenza sull’egoismo), ma soprattutto ad amare ancora di più il Pianeta in cui viviamo, anche se avverto tristezza nel vedere come lo abbiamo distrutto e ancora stiamo continuando a farlo. Come fotografo, il tempo mi ha invece regalato il dono di raccontare la realtà senza mistificazioni”.

Un pensiero per ciascuno dei tuoi figli. Che cosa vuoi dire loro che non gli hai mai detto finora?
“Alla mia figlia più grande vorrei chiederle di essere perdonato per l’amore che le ho fatto mancare nella prima parte della sua vita. Alla seconda, che le verità non sono mai da una parte sola. Al terzo, al momento posso solo raccontargli favole, perché è veramente troppo piccolo, avendolo io avuto pochissimi anni fa”.
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