Era il 2017 e Matteo Renzi, ospite da Bruno Vespa, diceva: “Se non riesci a prendere il 5%, è evidente che non possiamo fermare tutto per dare un potere di ricatto ai partitini. Non è accettabile che nel 2017 ci siano ancora i piccoli partiti che mettano i veti”.
Fa quindi un certo effetto vederlo lì, seduto al centro della delegazione di un “partitino” che lui stesso ha creato, diventando uno dei padri del governo Conte II. “Siamo qui per comunicare il ritiro dal Consiglio dei Ministri delle ministre Bellanova e Bonetti e del Sottosegretario Scalfarotto”.
Il discorso di Renzi si focalizza molto sul tema della “democrazia”. È una parola forte e lui la pronuncia una decina di volte, sostenendo che “la democrazia non sia un reality show e se c’è un problema lo si affronta nelle istituzioni, non con un post su Facebook”. Continua a martellare sulla questione social e più volte, anche riferendosi a Conte, ricorda che sia stato fatto “un uso continuo di comunicati roboanti, di dirette a reti unificate, la trasformazione in show dei nostri rapiti all’estero”.

L’accusa di Renzi è quella di aver trasformato in spettacolo la politica. Curioso che questa accusa venga da colui che, negli ultimi due mesi, ha giocato sulla spettacolarizzazione della propria azione promettendo di giorno in giorno una crisi di governo che arriva ufficialmente soltanto oggi.
“Confermando la nostra più totale fiducia nel Presidente della Repubblica, pensiamo che si debbano affrontare 3 punti cardine: Chiediamo che vengano rispettate le forme democratiche. Che non venga utilizzata l’emergenza come l’unico elemento che tiene in vita il governo. Che vengano gestiti meglio i fondi del Recovery, sfruttando anche i fondi in più (MES)”.
“Ci vuole coraggio – conclude – a lasciare un ministero e a dimettersi. Se le forze politiche hanno voglia di affrontare i problemi che ci sono da mesi lo facciano, senza continui giochi di parole e post sui social. La democrazia ha delle forme, e se queste non vengono rispettate c’è bisogno di qualcuno che lo dica. E questi siamo noi”.
“Noi usciamo perché Conte non ci ascolta e perché non vogliamo essere complici di un grande sperpero di denaro”, diceva Renzi i giorni scorsi parlando del Recovery Plan. Eppure, da quando Italia Viva ha iniziato a contrattare, le modifiche al testo del Recovery sono state apportate. Lo ha ammesso lui stesso. È per questo che la mossa di questa sera si spiega soltanto con la mera logica di un gioco politico. “Io conosco le dinamiche del palazzo”, ha ripetuto più volte negli ultimi giorni, ospite in tutti i programmi televisivi nei quali riuscisse a presentarsi. E infatti si è visto.

Non che ci sia da stupirsi, non di certo dopo tutto quello che è successo nella carriera politica dell’ex Premier, che tra le sue più grandi passioni ne conserva una in particolare: cercare ogni strada possibile per togliere agli altri il potere che vorrebbe avere lui. Era chiaro, da oltre un mese, che le motivazioni portate avanti per giustificare il ritiro delle sue due ministre dalla formazione di governo, le stesse ripetute anche oggi, non fossero altro che una fragile scusa dialettica.
Ora Conte dovrà decidere. Poche ore fa è stato al Quirinale per parlare con Mattarella, in quello che è stato definito soltanto un “incontro interlocutorio”. Uscendo, i giornalisti l’hanno giustamente incalzato. Per due volte hanno provato a chiedergli “Se le ministre di Italia Viva si tolgono, lei si va a dimettere?”. In entrambe le occasioni, Conte ha glissato. “Spero non si arrivi a questo punto”. “Una crisi in questo momento non sarebbe compresa dal paese – ha poi continuato il Presidente del Consiglio – in questi giorni sto lavorando per definire una proposta per un patto di fine legislatura. Confido sul fatto che tutti possiamo trovarci attorno a un tavolo, se c’è volontà di confrontarsi in modo leale. Io, fino all’ultima ora, lavorerò per rinforzare la maggioranza”.

Ora cosa succederà? Le strade che si intravedono all’orizzonte sono diverse. Un’ipotesi è quella del rinvio alle Camere, sottoponendo il governo ad una nuova verifica della fiducia alla Camera e al Senato. Potremmo avere invece la nomina di un nuovo Presidente del Consiglio sostenuto dalla stessa maggioranza, oppure da una maggioranza politica diversa, oppure persino la nomina di un nuovo governo presieduto dallo stesso Presidente del Consiglio, con la modifica dell’assetto dei Ministri. Questa è la prassi. In caso di sfiducia, ci si riunisce in Parlamento e si tasta il terreno per verificare l’esistenza di una nuova soluzione. Se i numeri non si trovano, allora c’è soltanto una soluzione: le elezioni anticipate.
I grillini tremano pensando a questo scenario e faranno di tutto per evitarlo. Se si tornasse alle urne (non prima di 45 e non dopo 70 giorni dalla crisi di governo), i loro consensi crollerebbero. Sbiancano anche quelli di Italia Viva all’ipotesi del voto, ancora più consapevoli dei 5 Stelle che, dando la parola agli italiani, raccoglierebbero solo le briciole.
Le prossime ore, per il futuro del Paese, saranno decisive.