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January 5, 2021
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January 5, 2021
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Il trumpismo dopo Trump: ci vorrà tempo per immunizzarsi ma non è invincibile

Il fenomeno esprime un’idea pericolosa del mondo e ha messo radici nell’opinione pubblica anche italiana

Angelo PerronebyAngelo Perrone
Perché la pandemia di Fake News diffusa da Trump contro Biden ha contagiato l’Italia

Matteo Salvini mentre indossa la mascherina pensata per supportare Trump (fonte: Facebook Matteo Salvini)

Time: 10 mins read

Non era accaduto con personaggi di ben altra statura, John Kennedy, Martin Luther King, lo stesso Barack Obama tuttora alla ribalta. È capitato a lui, il più improbabile dei protagonisti della storia moderna, Donald Trump. Dare origine a qualcosa, il trumpismo, che quel suffisso “-ismo” fa sembrare corrente di pensiero.

Il fenomeno è ideologia, mentalità, approccio spicciolo, espediente quotidiano. Aspetti di una personalità eccentrica e caratteriale, che spesso produce rabbia e livore. Dietro quella faccia un po’ così si annida anche un’idea del mondo. Alternativa ai valori della democrazia. E pericolosa. Via Trump il 20 gennaio (salvo contrordini), con l’insediamento di Joe Biden, finisce il populismo a stelle e strisce? Cosa rimane del trumpismo?

Il soggetto ha saputo conquistare consensi, e diventare presidente contro ogni aspettativa, compresa la sua, facendo breccia tra i ceti colpiti della globalizzazione e tra i disoccupati, spendendo l’immagine dell’uomo vincente negli affari e nella vita privata.

Poche idee precise. Mettere il turbo all’economia, cacciare gli immigrati, restituire agli americani il benessere perduto, tornare grandi. Bastava credergli. Molti lo hanno fatto. Spregiudicato, incostante e persino maldestro: che importa? Qualità di questi tempi. Troppe le pastoie, i bastoni tra le ruote.

Nonostante i guasti provocati da quattro anni di presidenza, molti hanno continuato a credergli. Sconfitto nello scontro con il democratico Joe Biden, ha raggiunto il record di 74 milioni di voti, circa il 47%. Ha il controllo del partito repubblicano in cui non ci sono competitors. Servirà su quel versante un’altra generazione.

Biden vs Trump (Illustration by Antonella Martino)

L’azione di Trump, in questo scorcio, continua a tenere alta la tensione. E’ nei minuti di recupero della partita che si vedono i campioni. Bisogna azzeccare le mosse giuste per continuare a guidare il gioco. Ecco i licenziamenti di funzionari sgraditi. Il veto al bilancio della difesa per gli scarsi finanziamenti all’industria degli armamenti. La “grazia” concessa ad amici implicati nel Russiagate. L’idea più dirompente sul piano costituzionale: un atto di clemenza a beneficio di sé stesso, e dei suoi, addirittura “preventivo” rispetto a eventuali processi futuri. 

Tanta cenere. Gli interventi sono stati sempre a gamba tesa. Si sono basati su un mantra: individuare l’avversario. Niente compromessi, tanto meno collaborazioni. Giù duro su immigrazione, sicurezza, relazioni internazionali. Il muro con il Messico è protezione economica e simbolo identitario del paese minacciato dalla contaminazione. Le violenze della polizia sui neri sono giustificate da ragioni di sicurezza. Il make America greait again rende auspicabile la disgregazione europea e spinge ad uscire dai trattati.

I toni sono esasperati e volgari, le falsità spacciate per verità. L’ “effetto serra” non è colpa dell’uomo. Il Covid è stato “fabbricato in Cina di proposito” per aggredire il mondo occidentale. Le mascherine “non servono”. Biden ha vinto con “i brogli”. “Plutonio” forse è il cane di Topolino. Il falso numero dei partecipanti ad una cerimonia pubblica non è una bugia, “un fatto alternativo”.

La politica degli espedienti può degenerare in show clownesco incline alla farsa. Non ci si preoccupa di predisporre soluzioni. La regola è intercettare istinti diffusi e rilanciarli. Ma certe situazioni, come la tempesta del Covid, sfanno sfiorare la tragedia.

Trump & Covid (Illustrazione di Antonella Martino)

La pandemia ha reso esplicito il volto del trumpismo, denunciandone contraddizioni e incapacità. Mostrandone il livello di frattura rispetto alla realtà, che è fatta della tragedia dei contagi e morti, tanti. Il Covid, incrinando certezze consolidate, ha svelato l’inganno ordito da pifferai magici, i profeti del crepuscolo delle democrazie e del nuovismo miracoloso.

Il trumpismo, sulla scena mondiale, è una maschera per nulla originale. Solo la declinazione americana – di enorme risonanza – di un fenomeno derivato dall’estremismo politico, veicolato dall’uso distorto del web. Ha robusti addentellati in quel continente (vedi il mitico Jair Bolsonaro, che a Capodanno in Brasile si tuffa senza precauzioni tra la folla di bagnanti), ma è diffuso soprattutto in Europa.

Il lancio in grande stile dell’operazione è coinciso con la doppietta del 2016: Trump alla Casa Bianca, la Brexit in Gran Bretagna. Ma il fenomeno è multicolore, trova repliche in altri contesti, la stessa mediocrità. Chi ha copiato chi? Come è avvenuto il contagio?

Il presidente Donald Trump (Illustrazione di Antonella Martino)

L’uscita della Gran Bretagna dall’Europa è festeggiato dal premier Boris Johnson con un’euforia che stride. Non ricorda che il paese ha beneficiato degli scambi con l’Europa, che ha in comune i valori essenziali, né ha memoria di cosette più spicciole, tipo l’Erasmus (che ha permesso a tanti giovani di conoscere altre realtà e di studiare assieme): l’Ue è solo impaccio. Finalmente il Big Ben può scandire l’ora della libertà ritrovata, del ritorno al dominio nei mari del mondo. Gli hanno sussurrato, allo stralunato Boris, che l’impero non esiste più, ma non ci ha creduto.

Sul lato est del nostro continente, le tesi dell’ungherese Viktor Orbán sulle “democrazie illiberali”, forma in divenire delle società occidentali, hanno trascinato ex satelliti sovietici, con il risultato di incrinare la solidarietà verso i paesi più colpiti dal Covid, in primo luogo l’Italia, quando si è tratto di varare gli aiuti del Recovery Fund.

In un club così raffinato e in espansione, non è mancato l’ingresso a pieno titolo dell’Italia con una manovra a tenaglia, da un lato l’exploit del movimento 5 Stelle nel 2013 e 2018, e dall’altro la crescita costante della Lega a partire dalle Europee di due anni fa.

Del resto, ciascuno ha portato con sé doti consistenti, grumi imponenti di irrazionalità (nelle analisi politiche) e sfiducia (verso agli assetti esistenti), in piena sintonia con il trumpismo. Il comune denominatore tra fenomeni a distanza è la valorizzazione dello strumento (il web come megafono e moltiplicatore della risonanza sonora) e dello scopo (la divisione del mondo in buoni e cattivi). Questi gli elementi decisivi delle scelte politiche.

Il grillismo affonda la sua matrice ideologica nella subcultura di Internet, base di partenza del movimento e punto di ricaduta della sua azione. Il decisionismo di rete è il rimedio taumaturgico di tutti i mali, fatti coincidere con le strutture tradizionali, i media (bugiardi), i partiti (corrotti), e tutto il resto (finanza, banche, industrie), contro cui è facile indirizzare le proteste. L’humus degli aderenti è un miscuglio: contrarietà alla democrazia rappresentativa, simpatie per le teorie cospirazioniste (su sanità, ambiente, finanza) e dunque vicinanza alle posizioni negazioniste, infine la nostalgia per il bel tempo antico rispetto alla modernità corrotta.

Matteo Salvini (Foto Wolfgang Achtner)

La Lega, acutamente definita da Ilvo Diamanti come “imprenditore della crisi”, ha affrontato la trasformazione radicale da “comunità di interessi” (del Nord) a “partito nazionale” (di tutto il paese), in concorrenza con i 5 Stelle, senza mutare pelle, mantenendo il carattere di “partito contro”, definito dalla radicalità delle sue contrapposizioni. Animato dal slogan antipartiti e istituzioni, specie europee, ha adeguato il suo porsi “contro qualcosa” secondo necessità e strategie. Prima, per difendere il Nord laborioso, era contro “Roma ladrona” e il meridione, una zavorra, poi, nello sforzo di conquistare anche il Sud, si è posta contro l’immigrazione senza se o ma, una minaccia per la sicurezza e il lavoro.Tematiche come l’avversione verso le politiche tradizionali, la diffidenza nei confronti delle istituzioni esistenti, soprattutto la battaglia contro gli stranieri, che 5 Stelle e Lega condividono con lo spartito di Trump.

Nel modo sguaiato in cui si presenta, il trumpismo è inaccettabile. E lo è anche il populismo di ogni colore. Ma la tendenza ad affrontare i problemi in modo grossolano e settario ha radici profonde nell’opinione pubblica di tutto il mondo, come è dimostrato dal consenso raccolto dalle formazioni populiste in Europa ed Italia. Il populismo appartiene ad un mondo antropologico, prima d’essere esperienza politica. C’è del trumpismo in tutti noi? Rimarrà dopo Trump?

Il populismo di Donald Trump è alimentato da tensioni, contrasti sociali, malcontento. Fattori reali: non sono invenzioni né la globalizzazione né l’impoverimento del ceto medio, né tanto meno la disoccupazione. Sono gli stessi elementi che rendono drammatica la situazione in tutto l’occidente e non solo.

Un’immagine del 1896 sul magazine americano “Judge”: il populismo divora il mulo democratico (wikimedia commons)

Ma non basta intercettare situazioni effettive. Se manca un’elaborazione delle ragioni del disagio, è impossibile comporre le fratture provocate da eventi straordinari, e si finisce per renderle più ampie. C’è un’impotenza di fondo nel trumpismo che sospinge oltre il razionale. Costruirsi di volta in volta un nemico è l’unica prospettiva e serve ad esorcizzare rabbia e paura. Fingere che così si possa uscire dalla crisi. La medesima condizione dei populisti in Europa tutta.

La pandemia ha creato drammatiche contrapposizioni. Ha posto in antitesi fattori che dovrebbero marciare insieme. Principalmente salute e lavoro. Ma non solo. Da un lato, la salute, dall’altro il resto, qualsiasi attività umana: il lavoro, la scuola, la cultura, il divertimento, lo sport, e via discorrendo qualunque altra cosa. È drammatico che la povertà preoccupi più della salute stessa e che questa valga meno. Può essere davvero così? Manca un bilanciamento di valori.

Tutti i governi hanno dovuto affrontare questi dilemmi (cosa privilegiare?) e si è visto come anche nel sentimento popolare talvolta vi fosse un’ambiguità di fondo, un’incertezza sulla direzione da prendere. Il fatto è che non esistono soluzioni semplici.

Leggere le contraddizioni richiede fatica ed impegno. E’ necessario uno sforzo continuo per comporre le alternative sul tappeto. Nella pandemia esse sono state rappresentate dal dilemma tra aperture e chiusure, tra divieti e permessi, rispetto a cui si vorrebbe decidere nettamente e una volta per tutte. Come se ci fossero solo luce e buio, il male fosse chiaramente contrapposto al bene. La realtà raramente è fatta di scissioni nette, di contrapposizioni senza distinguo. Il tiro, in ogni cosa, va sempre corretto, strada facendo, in base all’esperienza. Le scelte sono sempre provvisorie in attesa di verifiche: è la problematica che il Covid condivide con qualsiasi altra situazione, anche non sanitaria.

La mancanza di questo approccio empirico, si direbbe scientifico, porta alle conseguenze viste ovunque il Covid non sia stato affrontato subito, secondo i suggerimenti della scienza. Se non conosciamo il male, se esso ci coglie di sorpresa e non abbiamo l’umiltà di riconoscere che siamo drammaticamente esposti al pericolo, fragili come non immaginavamo, siamo indotti a reagire in modo scomposto e irrazionale: negando il male stesso, minimizzandone il pericolo.

Il confronto con problemi di enorme portata fa sperimentare la crudezza della storia e può essere il terreno di coltura del “negazionismo” che alla fine investe tutto il mondo circostante: la scienza, l’informazione, lo spazio delle competenze professionali. Sono proprio questi i campi che potrebbero darci una mano a capire e trovare una via di uscita. Invece vengono screditati, come elite corrotte contrapposte alle masse virtuose. Siamo alla parodia della lotta di classe, espediente ingannevole per mascherare svolte autoritarie in nome del popolo (inconsapevole).

La negazione del male e il rifiuto di riconoscerlo come prova da superare non hanno alcun futuro. Non è soluzione l’isolamento narcisistico, chiusura entro le mura protettive della propria presunta onnipotenza (individuale o nazionale), che ogni giorno è smentita dal principio di realtà. Tipi come Trump hanno rivendicato questa “forza” contro il male, prima d’esserne travolti: non solo perché contagiati ma perché sconfitti nella loro arroganza dai contagi e dai morti.

History, illustration by Antonella Martino

La versione a stelle e strisce del populismo – emersa con la pandemia – fa leva su un dato risalente: il paese ha avuto origine da una ribellione. E’ insita nella cultura nazionale una certa idea di libertà, senza limiti o condizioni. Un convincimento diffuso che si materializza nell’acquisto sconsiderato di armi, nel ribellismo violento di strada, nella sanità (subordinata a domande prima della prestazione, e a fatture dopo).

Anche in Europa ed Italia non sono mancate voci dello stesso tipo, improntate ad uno “spirito libertario”, critico verso le restrizioni in sé o verso il modo di introdurle. Sentimento condivisibile se non si dovesse nelle stesso tempo fare i conti con i contagi e i morti. Ovvero con la salvaguardia della salute pubblica e della integrità personale. La salute è l’unico diritto individuale che la Costituzione (art. 32) definisce “fondamentale” rispetto a tutti gli altri.

Nelle democrazie liberali messe sotto scacco dal virus, è stato sventolato impropriamente il vessillo della libertà ingiustamente coartata. Sia da parte dei governanti impegnati ad esserne i primi difensori sia a volte da parte dei governati.

Le preoccupazioni “libertarie” rispetto alle restrizioni, dolorose e faticose, si fondano, alla fine, su una concezione della libertà svincolata da ogni principio di solidarietà umana, e perciò ciecamente individualistica. La libertà depauperata del senso di comunità, sterile e innaturale, è solo dichiarazione retorica. Difficile immaginare che rimanga libertà possibile per ciascuno. La condizione degli altri è anche la nostra e ci riguarda da vicino.

*

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Angelo Perrone

Angelo Perrone

Angelo Perrone è giurista e scrittore. È stato pubblico ministero e giudice. Si interessa di diritto penale, politiche per la giustizia, tematiche di democrazia liberale: diritti, libertà, diseguaglianze, forme di rappresentanza e partecipazione.Svolge studi e ricerche. Cura percorsi di formazione professionale. È autore di pubblicazioni, monografie, articoli. Scrive di attualità, temi sociali, argomenti culturali. Ha fondato e dirige “Pagine letterarie”, rivista on line di cultura, arte, fotografia. a.perrone@tin.it

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