Uno dei dati più interessanti dell’elezione presidenziale americana del 2020 lo ha recentemente pubblicato il Brookings Institute. Attraverso un’analisi dei voti distretto per distretto, il think tank di Washington DC ha scoperto che le circa 500 contee vinte da Joe Biden hanno generato il 70% del PIL statunitense, mentre le oltre 2400 contee vinte da Donald Trump hanno generato solo il 29% del PIL. Questo dato conferma un trend oramai noto negli stati uniti e nell’intero occidente: i partiti populisti di destra sono riusciti a conquistare l’ex voto operaio che una volta finiva ai partiti post-comunisti del centro-sinistra.

Negli Stati Uniti il centro-sinistra non è mai dovuto risorgere dalle macerie di un partito comunista, ma proprio come in occidente ha rappresentato per gran parte del ventesimo secolo la voce dei più deboli e dei più vulnerabili. Mentre la destra Reaganiana prometteva di tagliare le tasse ai più ricchi, la sinistra di Lyndon B. Johnson e di John F. Kennedy istituiva la “guerra sulla povertà” e passava riforme sanitarie di ampio respiro. A partire dagli anni 90 però, qualcosa si è rotto tra lo storico elettorato di sinistra e il partito democratico. Con la presidenza di Bill Clinton si è aperta una terza via, dove le preoccupazioni e le istanze della classe lavoratrice sono finite in secondo piano rispetto all’internazionalizzazione e alla globalizzazione finanziaria. La classe lavoratrice si è sentita tradita e abbandonata da un partito che fino a pochi anni prima prometteva di ridurre le disuguaglianze economiche.

Senza più un punto di riferimento, la classe operaia si è rivolta ai nuovi partiti della destra populista che sono riusciti a costruire un messaggio semplice e vincente, cavalcando le paure e le incertezze di un mondo che sembrava andare fin troppo veloce per loro. Negli Stati Uniti, dove vige un sistema maggioritario, il partito populista di destra lo è diventato il partito repubblicano, attraverso una trasformazione iniziata nel 2010 con il tea party movement e proseguita nel 2016 con l’elezione di Donald Trump. Quando ci si chiede se il trumpismo sparirà dopo la sconfitta avvenuta in questa tornata elettorale, bisogna tenere bene in mente che Trump è semplicemente il portavoce di un movimento e di una dottrina politica che va ben oltre il singolo individuo. Gli spazi politici in America, come nel resto dell’occidente, sono cambiati radicalmente in questi ultimi anni, e ci vorrà tempo per ulteriori trasformazioni strutturali.
In una recente intervista, il giovane senatore repubblicano Marco Rubio ha già tracciato il sentiero da seguire per gli anni a venire: “Il futuro del partito si dovrà basare su un’elettorato operaio che sia multietnico e multirazziale”. Se c’è una sorpresa da queste presidenziali è proprio la performance di Donald Trump con l’elettorato afroamericano, ispanico, e asiatico. Rispetto al 2016, Trump ha guadagnato 4 punti percentuali con gli uomini afroamericani, 3 punti percentuali con gli uomini ispanici, e 5 punti percentuali con gli uomini asiatici. Stesso discorso per le donne: nel 2016 Trump vinse le donne bianche per 9 punti percentuali, quest’anno ha incrementato il suo vantaggio sul candidato democratico a 11 punti percentuali. Per quanto riguarda le donne ispaniche e afroamericane, Trump ha diminuito lo svantaggio rispetto al 2016: mentre nella scorsa tornata elettorale i Democratici vinsero le donne afroamericane e ispaniche rispettivamente con il 90% e il 44% delle preferenze, quest’anno queste cifre sono calate all’81% e al 39%. Nell’anno in cui una donna di colore si trova per la prima volta nella storia americana come candidata alla vicepresidenza, il voto tra le donne di colore si è spostato di 9 punti percentuali nella direzione opposta, verso Trump.

Le minoranze e le donne – proprio quei gruppi che dovevano rappresentare la base della coalizione democratica – si sono spostati verso il candidato repubblicano. Questo è un segnale molto importante per il Gran Old Party, che dimostra come certi temi e certe problematiche vadano ben oltre l’identity politics che il partito democratico ha usato come dogma in tutti questi anni. Se sei nero non devi per forza votare democratico, e se sei donna non devi per forza votare per una candidato del tuo sesso. Questo è il concetto fondamentale che il nuovo partito repubblicano post-Donald Trump dovrà seguire, spingendo sempre di più sulla dottrina vincente dell’America First, che ha portato al partito 10 milioni di voti in più rispetto all’exploit del 2016. Ma se le tematiche e il target elettorale appaiono ben chiari, non è ancora chiaro chi potrà caricarsi sulle spalle la responsabilità enorme di sostituire un gigante come Donald Trump. L’ex amministratore della campagna elettorale di Donald non ha dubbi: “sarà di nuovo Trump a ricandidarsi nel 2024”. Il Presidente, come è ben noto, non ama perdere, e una vittoria tra quattro anni potrebbe dimostrare a tutti che l’unico motivo per cui perse nel 2020 fu per via dei brogli elettorali. Ma considerando l’età alquanto avanzata ed alcune imminenti azioni legali nei suoi confronti, è più che giusto per i repubblicani pensare a qualcun altro che possa prendere il suo posto, magari più giovane e con meno problematiche giudiziarie.

Al Senato ci sono varie personalità di spicco come Josh Hawley – il senatore del Missouri agguerrito contro le corporazioni big tech- o Tim Scott – l’unico afroamericano repubblicano in tutto il congresso. Senza dimenticarsi dell’ex ambasciatrice alle Nazioni Unite Nikki Haley, che recentemente si è esposta per difendere le accuse di Trump sul voto truccato. Ma la sensazione attuale è che nonostante tutte queste figure siano professionali e ben preparate, manchi in loro quella scintilla che fece scattare Trump nel lontano 2015, quando scese dalle scale mobili della Trump Tower. Certo, è assai difficile trovare un altro miliardario pomposo e narcisista disposto a scendere in campo, però ci vorrebbe qualcuno che sia già ben noto e ammirato dal popolo conservatore per motivi che vadano oltre qualche riforma al Senato o qualche dichiarazione nella sede di un organo internazionale. La nota positiva per la leadership Repubblicana è che questa persona già esiste e si chiama Tucker Carlson – uno dei conduttori più amati di Fox News, che ogni sera entra nelle case del popolo americano, proprio come Donald Trump faceva con il suo show The Apprentice. Tucker è uno di loro; è uno che parla semplice e proprio come Trump non ha peli sulla lingua: se deve dire qualcosa la dice, anche con il rischio di pigliarsi qualche querela. Tucker potrebbe rappresentare il successore ideale a Donald Trump. Una figura meno dispersiva e più preparata rispetto a The Donald, e questo non può che far bene al partito Repubblicano.