Le ultime ore della aggressiva e a volte volgare campagna elettorale americana, arrivati a questo punto non hanno significato. Una dopo l’altra, le manovre di disorientamento del pubblico orchestrate non solo, come si ripete, dai “soliti noti” stranieri, ma più spesso all’interno e perfino dai vertici dalla Casa Bianca, sono sprofondate nella palude disinformativa come palle di piombo.
L’elettore è mitridatizzato. Non fa più caso ai veleni della delle menzogne e dei tweet spesso infarciti di falsità. Si è fatto una sua idea su chi vuole votare e questo gli basta. Trump del resto non ha neppure perso tempo a preparare un programma. Aveva preparato lo slogan Keep America Great Again. Ma poi deve avere capito che la cacofonia della sigla lo avrebbe messo in ridicolo con gli ispanici. Ha tirato fuori di nuovo il vecchio slogan MAGA (Make America Great Again). Implicitamente, ha riconosciuto così che la sua pomposa promessa di resuscitare la Grande America dei tempi passati è rimasta lettera morta: rovesciata dall’ecatombe tuttora fuori controllo del Covid-19 che lui ha sottovalutato e ignorato.

Quanto a Biden, che secondo i sondaggi sarebbe in leggero vantaggio, per tutta la campagna il presidente non ha perso occasione per insultarlo con l’epiteto da cartoni animati di “sleepy Joe” e accusando il suo quasi coetaneo di vecchiaia avanzata. La stessa tattica, era stata usata da Trump contro Hillary Clinton, facendo circolare la voce, inventata di sana pianta, che la candidata dei democratici e per anni segretaria di Stato con Obama era stata in colpita da un male incurabile.
Il clima della campagna 2020 è stato, dal principio alla fine, per usare un eufemismo, assolutamente non all’altezza di una grande nazione, che è stata ed è ancora, nonostante il suo relativo declino, il polo di riferimento di ogni democrazia.
“Gli Stati Uniti hanno goduto a lungo del titolo di leader del mondo libero. L’elezione americana del presidente è stata considerata l’esempio più avanzato di democrazia in azione. A questo punto siamo però testimoni di un epilogo elettorale diverso. La gente di tutto il mondo assiste con acuta attenzione non solo ai risultati del voto, ma a qualunque indizio che i risultati possano essere contestati davanti a una Corte di giustizia, o per le strade”.
Così scrive il columnist Gideon Rachman sul Financial Times, quotidiano a diffusione globale, che per qualunque leader politico, dell’economia o della cultura è lettura obbligata”.
Il fallimento di una democrazia, conclude il commento, “dalla maggioranza degli americani è sempre stato considerato un fatto che può avvenire solo in lontani paesi stranieri. Ma le democrazie possono fallire dovunque. E le penose lezioni apprese dagli incerti tentativi di “promozione democratica” compiuti da altri paesi si potrebbero applicare anche agli Stati Uniti”.
La democrazia americana, un tempo citata come modello ideale da de Toqueville, rischia dunque di scivolare a livelli da paese in via di sviluppo? Non è il caso di assumere il ruolo delle Cassandre di turno. Ma il pericolo della “erosione di democrazia” in America è presente, e non solo dal momento della venuta di Trump.
Lo ha segnalato, davanti all’assemblea delle Nazioni Unite (che non a caso l’amministrazione Trump cerca di rendere irrilevante) il recente rapporto “The Global State of Democracy’ di IDEA International. L’organismo intergovernativo con sede a Stoccolma, che ha lo status di osservatore permanente all’ONU, al capitolo 3, nelle pagine 150 e seguenti, avverte:
“Indeed the USA is among the 12 countries in the world with most [democratic] subattribute declines since 2013 (five in total)”.
In particolare, negli Stati Uniti gli indicatori di Libertà Civili, Integrità dei Media, Libertà di Movimento e religiose sono in declino. “La libertà dei media ha continuato a subire minacce dal 2017-2018, quando la campagna elettorale di Trump e la sua successiva amministrazione hanno escluso determinati reporters da eventi, e sostenitori di Trump hanno sottoposto i cronisti a intimidazioni”.
Anche il presidente, continua il rapporto di IDEA, “con i suoi attacchi verbali contro la stampa e le accuse selettive di fake news ha contribuito al clima intimidatorio e accresciuto il rischio di violenza contro i giornalisti. [….] . Ciò costituisce una seria minaccia allo stato di salute della democrazia americana”.
In prospettiva, dunque, il pericolo di scivolamento verso l’autoritarismo in America esiste e non va sottovalutato. Il principio costituzionale di “spinte e controspinte” (checks-and-balances) fra poteri esecutivo, legislativo e giurisdizionale, è in crisi o perfino paralizzato: si scontra infatti con la vocazione autoritaria dell’esecutivo attuale.
Un esempio vale per tutti. Il presidente Trump ha avvertito che, in caso di contestazioni sul risultato del voto, ricorrerà senz’altro alla Corte Suprema. Nella quale, con la nomina preelettorale del giudice vacante, votata a tempo di record da pochi giorni dal Senato controllato dai repubblicani, esiste ora una netta maggioranza di giudici di indirizzo conservatore.
Se Trump vince le elezioni, o anche se le contestazioni si prolungano, il prossimo presidente potrà essere eletto, quindi, non dal voto popolare ma dalla Corte Suprema. Con George W. Bush, in un clima incomparabilmente meno aggressivo. Il 25 novembre 2000 è già accaduto. Vent’anni sono. Per i tempi della politica un’eternità.