Premessa importante. Non sto scrivendo questo articolo per convincere chi mi legge a votare Biden (o, dio ci scampi, a scegliere Trump!), ma perché voglio provare a rispondere ad una domanda. Qual’è il meccanismo che spinge una grossa fetta del popolo americano (e mondiale!) ad apprezzare prima e a votare poi il buffo personaggio? Stiamo parlando di un presidente che, a detta di molti commentatori (“di sinistra” e non), è una minaccia per la democrazia americana, un incompetente totalmente inadeguato al ruolo che ricopre. Eppure, anche se dovesse straperdere le elezioni, almeno 50, 55 milioni di statunitensi voteranno per Donald.
Come si spiega questa cosa? Quali sono le forze profonde in gioco? Dove troviamo una “teoria unificante” che spieghi la situazione in cui ci troviamo?
Alla vigilia di un’elezione che, in un modo o nell’altro, sarà storica, cerco una spiegazione.
Gli elefanti nella stanza
Fatemi mettere subito le carte sul tavolo. Anch’io penso che Trump sia un incompetente e che la sua presidenza sia stata una disgrazia per gli USA e per il mondo intero. Adesso l’ho messo nero su bianco. Non c’è nessuna finzione di essere in qualche modo “equidistante”.
Detto questo, proverò in tutti i modi a rispondere alle domande da scienziato, e non da persona comune che, formatasi un’opinione, va alla forsennata ricerca di tutti e soli gli elementi che corroborino la sua idea esistente (se avete letto i miei articoli precedenti, riconoscerete il notorio bias da conferma).
La prima domanda che deve venire spontanea è questa: ma Trump è davvero un pessimo presidente OPPURE sono io vittima di antipatie e preconcetti che mi portano a vedere solo certi aspetti del suo operato?
Domanda sacrosanta che ne introduce un’altra: tra le azioni di Trump, ce ne sono alcune che considererei mostruose e inaccettabili anche se fatte da un qualsiasi altro presidente di qualsiasi segno politico?
Posso rispondere facilmente: assolutamente sì. Ne vedo almeno due.
Cambiamento climatico: non solo non ha fatto niente per contrastare il cambiamento climatico, ma Trump ha proattivamente sabotato quel poco su cui tutti i paesi si erano trovati d’accordo, ad esempio facendo uscire gli USA dagli accordi di Parigi. Tra i suoi supporter c’è chi nega il problema, chi dice che il problema non è causato dall’uomo e chi dice che oramai non possiamo farci niente. Tutte narrazioni buffe inventate per giustificare l’inazione.
Detta in breve, abbiamo un solo pianeta a disposizione e ce lo stiamo allegramente fottendo. La cosa a Trump non interessa. Eppure riguarda la sopravvivenza della razza umana o giù di lì. Già questo basta per la bocciatura senza appello del suo operato.
Problema razziale: dopo nove anni passati in America ho capito due cose. Ho capito che le disparità su base razziale esistono eccome. E ho capito che, nonostante questo, la stragrande maggioranza degli afro-americani svolgono il loro lavoro con serietà e dedizione, contribuendo come tutti gli altri americani ogni santo giorno alla vita economica, sociale e culturale del paese, dando il loro contributo alla grandezza della nazione.
I casini sono arrivati con Trump. Fino a prima di lui, non era pensabile che, lungi dal provare a riappacificare gli animi, un presidente seminasse zizzania tra i suoi cittadini per tattica politica.
Il compito di un presidente è quello di migliorare le condizioni socio-economiche dell’intera nazione, e non solo quelle di alcuni dei suoi cittadini. Certo, Democratici e Repubblicani si presentano da sempre con idee divergenti sul cocktail giusto tra tasse e stato sociale che faccia prosperare l’America, ma nessun presidente si sarebbe mai sognato di non condannare un gruppo armato paramilitare di suprematisti bianchi. Trump fa l’opposto: gli dice stand back and stand by (fate un passetto indietro, ma tenetevi pronti) in mondovisione!
Insomma, l’America non era un paese diviso fino a che, con Trump, all’improvviso lo è diventato. E questo per la scelta esplicita e calcolata di Trump stesso di dividere la nazione al costo di fomentare una guerra civile. Non è questione di destra o sinistra, a meno che per destra non si intenda, appunto, i suprematisti bianchi.
Ci sarebbe altro, ma…
In realtà ci sarebbero altri motivi per cui Trump mi fa abbastanza schifo. Ad esempio il suo endorsement incondizionato alla lobby delle armi da fuoco (in USA le vendono anche da Walmart), la libertà religiosa portata al parossismo per limitare la libertà di altri in nome di un’agenda iper-conservatrice, la guerra contro Obamacare per demolire un tentativo di dare copertura sanitaria a tutti. Ma mi rendo conto che queste discussioni potrebbero più facilmente finire nel dominio dell’opinabilità e della diversità di valori. Per i fini di questo articolo le metto un momento da parte quindi.
Nei panni dei trumpisti
Liberato il campo da quello che penso io, passo alla fase due, provando il più possibile ad immedesimarmi nei panni di chi Trump lo sostiene e lo vota, cercando di capirne le motivazioni.
Se la possibilità di avere accesso libero alle armi da fuoco è il problema numero uno per quell’elettore, il problema non si pone. Trump is your best bet.
Se la scelta delle donne di interrompere la gravidanza viene vissuta come un abominio, presumibilmente per motivi religiosi, il discorso è analogo. Che a Trump gliene possa fregare qualcosa dei valori cristiani mi fa ridere solo a scriverlo, ma di certo per gli ultra-religiosi è Trump la scelta più ovvia.
Per quanto riguarda Obamacare, presumo che non siate un dottore o uno che con il giochino delle tre carte delle assicurazioni sanitarie americane ci guadagna. Tolto quello, l’idea che chi si ammala e non può più lavorare in automatico perda la copertura sanitaria è così assurda che neanche i Repubblicani sono riusciti a farla passare quando controllavano Senato e Congresso. Ancora oggi Trump blatera di formidabili riforme in grado di salvare capra e cavoli, riforme che, da buon cazzaro americano, non ha mai illustrato a nessuno perché era un bluff.
Tolti questi casi, ci sono situazioni in cui io arriverei a convincermi che votare per Trump è nell’interesse mio e dell’America?
Qualcuna ce n’è. E al solito, bisogna fare lo sforzo di spogliarsi di ciò che si è (e che si è introiettato negli anni) e immaginare come saremmo se fossimo nati in un contesto diverso. In articoli passati, ho parlato di psicologia cognitiva (applicata al populismo) e di fenomeni storici di Lunga Durata. Vediamo di utilizzare questi strumenti per dare un senso ad un evento storico che accadrà tra poche ore ma che influenzerà il mondo in cui viviamo nei decenni a venire.
Fly over States
Chi mi legge dall’Italia potrebbe non riconoscere quest’espressione. Fly over States, “gli stati che ci voli sopra”. Il grosso degli spostamenti aerei americani avviene tra le metropoli e gli agglomerati urbani sulle due coste. Dall’alto si possono osservare le distese di campi coltivati e pensare a quanto pallosa sarebbe una vita in un posto così. Quasi specularmente al traffico aereo, anche cinema, giornali, libri e TV si concentrano sugli avvenimenti di New York City, LA, Boston, San Francisco, Chicago, Miami, Houston e un pugno di altre città che tutti riconosciamo tra i posti più cool in cui vivere in USA.
Adesso, mettetevi nei panni di uno che in quegli stati ci è nato e cresciuto. Immaginate il senso di insoddisfazione nel sentirsi membro di una società che non solo conta poco a livello di governo centrale, ma che vede certificata tale condizione nel nomignolo con cui altri americani identificano il posto dove vivono: gli stati che ci voli sopra, appunto.
Difficilmente chi non ha vissuto negli USA almeno per un po’ di tempo ha cognizione vera di questo aspetto. Eppure è così. Dall’Indiana all’Oklahoma, dal North Dakota all’Alabama, non molti turisti italiani sono mai stati in quei posti così ampi e sperduti che, mentre guidate da una pompa di benzina all’altra, la funzione ‘ricerca’ della radio in FM gira a vuoto.
Questa è una faccia dell’America che non si sente raccontare spesso. Eppure, come la condizione sociale degli afro-americani, questo è uno degli aspetti con cui il popolo statunitense convive, spesso senza sentirne il bisogno di parlare, come se fosse un segreto di famiglia che non è carino menzionare.
Ricordo la battuta di un personaggio di TWD, la serie televisiva The Walking Dead, che suggeriva di trasferirsi in Nebraska per massimizzare le proprie chance di sopravvivere alla furia zombie. Perché il Nebraska? Ma perché ci vive poca gente ed è pieno di armi, no?!
E non è un caso isolato. Gli sceneggiatori di Hollywood si divertono un casino con questi potshot, battute sferzanti infilate inaspettatamente in film e serie TV per far ridere i fighetti di città.
Una canzone di Jason Aldean, stella della musica Country, si intitola proprio “Fly over States”. È una vera e propria celebrazione dell’“orgoglio flyover” che trovo incredibilmente istruttiva.
Due tizi che viaggiano in business su un volo da New York a Los Angeles chiacchierano del più e del meno per non annoiarsi e flirtano con le hostess 30.000 piedi sopra quello che potrebbe essere l’Oklahoma degli immensi quadrati delle fattorie che coltivano grano e mais.
“Cavolo, sembra tutto uguale. Miglia e miglia di stradine e di autostrade che uniscono paesini dai nomi buffi. Chi vorrebbe mai vivere laggiù nel bel mezzo del niente?”
Non hanno mai attraversato l’Indiana in macchina, né incontrato l’uomo che pianta il seme e ara la terra, e che si fa il culo per te e per me. Non hanno mai visto la luna piena del periodo del raccolto in Kansas, perché se l’avessero fatto saprebbero perché Dio ha creato quegli Stati “volacisopra”.
Scommetto che il conduttore di quel treno merci lungo un miglio che viaggia sulla Santa Fe (NdR: rete ferroviaria per il trasporto delle merci di enorme estensione) le ha viste tutte. Così come le ha viste un po’ tutte quel camionista che macina tre giorni filati di strada per portare i piloni di acciaio americano.
Strade e binari sotto i piedi, cazzo, quello sì che è un posto in prima classe. Sulle pianure dell’Oklahoma, quando il parabrezza ti proietta il tramonto negli occhi come se fosse un cielo dipinto ad acquerello, ti verrebbe da pensare che le porte del paradiso si sono aperte e a quel punto capirai perché Dio ha creato quegli Stati “volacisopra”.
Fatti un giro anche tu attraverso le badlands (NdR, le distese argillose) e sentiti la libertà in faccia. Respira quell’immenso spazio aperto. Ti presento una ragazza di Amarillo in Texas. Capirai perché Dio ha creato [quegli Stati “volacisopra”]…perché anche tu nella tua vita dovresti scommettere su quegli stati volacisopra.
Hai mai attraversato l’Indiana, o le pianure dell’Oklahoma? Ecco, facci un giro [poi parliamo].
(Nota per i precisini della geografia: non chiedete a me perché un aereo che va da New York a Los Angeles debba sorvolare l’Oklahoma).
Ecco, se fossimo nati e cresciuti lì, in qualche fly over state, forse ci saremmo rotti le palle anche noi e voteremmo Trump per ripicca. Magari in cuor nostro sapremmo benissimo che è un coglionazzo, ma quella sarebbe la nostra occasione per far sapere ai liberal e ai fighetti di città che ci siamo anche noi. E chi se la lascia scappare un’occasione così? Non a caso la mappa dei flyover state (detta anche “flyover country”) assomiglia paurosamente a quella degli stati solid red (lo zoccolo duro del partito Repubblicano).
Il Politically Correct imperante
Ieri sono andato a visitare Planet Word, il nuovo museo della lingua aperto recentemente a Washington DC. Non è un museo a tema “politico”, ma la lingua è così connessa alla cultura della società che è inevitabile: gli argomenti si toccano.
In uno dei video, Logan Grayce spiegava di “identificarsi” come “non binary”, ovvero di non sentirsi rappresentata dai pronomi he e she (lui e lei) che si portano dietro l’implicazione di una scelta di sesso, maschio o femmina. Logan non si riconosce in nessun genere e reclama il diritto ad un’estensione dei pronomi they/them (loro) per indicare non la possibilità gender-neutral che si tratti di una lui o di una lei (questo uso politicamente corretto è codificato in inglese da moltissimi anni ormai), ma proprio di farlo diventare un nuovo pronome SINGOLARE per non fare torto a chi come lui/lei si sente “non binario”. (Nota: per chi fosse interessato a discussioni analoghe applicate alla lingua italiana, l’avanguardia linguistica nostrana è rappresentata dal lavoro di Vera Gheno).
Lo so. È complicato. Se da una parte capisco le esigenze di Logan, dall’altro mi metto nei panni di Jason, il tizio che, in una sera stellata, seduto sul suo trattore guarda passare in alto l’aereo da New York a Los Angeles. Jason non pensa di aver capito molto di come va la vita, ma alcune cose credeva di averle ben chiare. Ad esempio il fatto che ci sono i maschi e le femmine. Magari capisce anche che qualcuno è nato gay e preferisce avere un dude come fidanzata, ma poi basta, si ferma lì.
Adesso il pensiero liberal lo mette a confronto con i nuovi concetti di LGBTQTRH9YTG7+ e Jason è confuso. Anche quel poco che credeva di aver capito viene rimesso in discussione. Oramai anche parlare è diventato un campo minato. Basta poco per offendere qualcuno ed essere messi alla berlina. Che soddisfazione vedere un presidente che dice quello che gli passa per la testa a ruota libera e, se non ti piace, sono cazzi tuoi. Del resto Jason non ha tutti i torti. Esiste anche un pensiero unico liberal molto forte di questi tempi in USA. E se dissentire dal pensiero unico “di destra” non è visto bene tra gli esaltati del Tea Party, qualcosa di analogo succede “a sinistra” dove un progressista non può certo allontanarsi di molto dalla vulgata liberal del #meToo, di #BlackLivesMatter e di #Antifa a cuor leggero, pena l’infamia e l’ostracismo di quella parte. Insomma, rivedere le proprie convinzioni comporta uno sforzo cognitivo notevole. Non tutti sono pronti a farsene carico; né ne hanno voglia.
La globalizzazione
L’America stessa è stata architetto (architetta?) e fautrice della globalizzazione. Eppure, oggi che l’intelligenza artificiale e la robotizzazione stanno per eliminare decine di milioni di posti di lavoro, le conseguenze le sentono anche i lavoratori statunitensi. Ovviamente questo crea una dissonanza cognitiva di cui ho già parlato in articoli precedenti. Trump non rappresenta una dichiarazione esplicita di guerra alla globalizzazione, ma chi odia la globalizzazione può riconoscere nell’azione di Trump quantomeno un tentativo di mettere il bastone tra le ruote al sistema. Questo basta e avanza per scegliere di votarlo.
Se avete letto il mio articolo sulla Storia 2.0, riconoscerete in questo comportamento quello degli attori di un fenomeno di lunga durata, lento forse, ma profondo e inarrestabile. L’opposizione ad uno schema di sviluppo economico della società che, dopo decenni di enormi vantaggi, sta ora mostrando il lato più problematico e richiederà riforme significative negli anni a venire. I lavoratori di ogni ordine e grado, a parte forse quelli superspecializzati, avvertono il peso dello sfruttamento indotto dalla competizione con la tecnologia, ed una prospettiva ancora peggiore: l’irrilevanza quando il loro lavoro non servirà proprio più. Se il voto è l’unica arma che hanno, chi devono votare per mandare un messaggio forte?
La teoria unificante
Alla fine, quando mi trovo a confrontarmi con qualcuno che vota Trump, anche tra gli amici a volte, la tentazione di mandarlo (mandarla? mandarli?) in culo e tagliare i ponti è forte. Ma normalmente resisto. Ne so abbastanza dei meccanismi che regolano la formazione delle opinioni da comprendere come si possa arrivare lì.
Mettendo insieme tutti questi elementi, la popolarità di Donald J. Trump presso alcuni è, se non proprio giustificata, quantomeno spiegata. Difficilmente quello zoccolo duro di un 40% di elettori può essere scalfito in tempi brevi. Gli aspetti che portano al supporto di personaggi populisti sono ancora tutti lì e nessuno sa bene come farci qualcosa.
Volendo dare un consiglio pratico, se avete un amico trumpista, a fare unfriending su Facebook ci mettete un secondo.
Prima di farlo, vi consiglio di fermarvi un momento per provare ad immedesimarvi con lui (con lei? con loro?) come faccio io. Magari qualche ragione degna di considerazione ce l’ha, anche se non la condividete.