
Sono trascorsi 10 anni dalla scomparsa di Francesco Cossiga ma il suo anniversario è stato in un certo senso anticipato tre mesi fa quando la sua figura è stata riportata al centro dell’attenzione mediatica in relazione al caso dell’ex presidente dell’Associazione Magistrati Luca Palamara, coinvolto in un’inchiesta della procura di Perugia che ha avuto origine dal contenuto di intercettazioni e di chat presenti sul suo telefono in cui si faceva riferimento ad alleanze, nomine e rapporti tra politica e magistratura. In tanti, soprattutto grazie ai social, hanno potuto infatti rivedere un suo intervento del 2008, diventato poi virale, nel corso di un talk pomeridiano su Sky condotto da Maria Latella incentrato sul caso delle dimissioni dell’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella che provocarono la caduta del governo Prodi. L’ex Presidente della Repubblica in quella occasione inveì in maniera violenta nei confronti di Palamara, presente (ahi lui) in studio. “Debbo dire che a questo dibattito partecipa un magistrato che o non capisce nulla di diritto o è molto spiritoso. La faccia da intelligente non ce l’ha assolutamente. Vengo da una famiglia di magistrati che si vergognerebbero di sentire quello che ha detto questo – come si chiama? – Palamara, come il tonno”. A quel punto calò il gelo in studio, con una conduttrice imbarazzatissima e il povero magistrato letteralmente paralizzato, capace di farfugliare solo qualche timida parola.

Oggi, a distanza di dodici anni, si può dare una lettura più chiara ed esaustiva di quello fu visto dai più come un gratuito intervento “a gamba tesa” da parte di Cossiga. E alla luce di quel che è accaduto in questi ultimi mesi si può spiegare il motivo della mancata reazione di Palamara a quelle accuse infamanti: perché probabilmente, lo possiamo intuire oggi, forse sapeva di essere colpevole.
L’episodio che vede protagonista Palamara è ben descritto nel libro del giornalista Anthony Muroni Francesco Cossiga dalla A alla Z, il vocabolario del sardo che viveva per la politica, pubblicato nel 2012 da Èthos e di cui sta per uscire una nuova edizione per l’editore Santelli. Un volume che ci offre un ritratto a tutto tondo di una delle figure più complesse, originali e controverse della Repubblica, un protagonista assoluto – avendo ricoperto gli incarichi più prestigiosi – della storia italiana degli ultimi 50 anni.
Il libro è stato presentato alla vigilia di Ferragosto a Santu Lussurgiu (un piccolo borgo in provincia di Oristano) nel corso di un evento a cui ha partecipato, oltre all’autore, anche Vittorio Sgarbi. Il popolare critico d’arte come si sa era molto legato a Cossiga, con cui ha condiviso, oltre a svariate battaglie politiche – in particolare sui temi legati alla giustizia – anche un approccio alla politica decisamente irriverente e anticonformista.

“Il libro di Muroni – sottolinea Sgarbi – porta con sé un piccolo vantaggio: non si presenta come un racconto e neppure come una biografia in senso classico. Il che ci consente di non leggere una storia, che prevederebbe nel caso di Cossiga un racconto in un certo senso romanzato, caratterizzato da uno spirito di un’avventura. Un’avventura dell’esistenza che si è conclusa con la morte di Cossiga ma che è rimasta ben viva anche oltre il mandato presidenziale. A differenza del suo successore, Scalfaro, che è morto dopo di lui ma che in realtà è morto appena ha finito di essere il presidente della Repubblica. Cossiga invece come un gatto ha avuto diverse vite, e anche diverse morti e diverse rinascite. C’è per esempio il Cossiga che muore quando muore Moro e c’è l’uomo che si dimette con un gesto a quei tempi decisamente inconsueto”.
Nel ricordo dello statista italiano colpisce immediatamente il fatto che lui abbia saputo incarnare meglio di chiunque altro il passaggio da un mondo ad un altro, prendendo coscienza con grande lucidità della fine della prima repubblica sotto l’impulso di grandi mutamenti internazionali quali la caduta del Muro di Berlino e il successivo processo di unificazione tedesca, eventi che non potevano restare senza conseguenze dirompenti per il nostro Paese. Sono gli ultimi due anni della sua presidenza, quando in pochi sembravano rendersi conto di quel passaggio inevitabile e quindi Cossiga cercava inutilmente di proporsi come traghettatore. “Per farmi sentire debbo gridare, altrimenti nessuno mi ascolta” era solito ripetere in quelle giornate particolarmente convulse. Era la fine di un’epoca che i giudici avrebbero abbattuto mettendo sotto accusa la Prima Repubblica. Cossiga ebbe pienamente coscienza del fatto che la politica stava per essere commissariata dalla magistratura. E reagì minacciando, da Presidente della Repubblica, di inviare i carabinieri al Csm.
“È proprio questa dimensione profetica del personaggio che me lo ha fatto sentire molto vicino”, spiega. E poi l’ironia dissacrante e soprattutto il linguaggio, che era la sua vera forza e da cui Sgarbi è sempre rimasto affascinato. “È vero, il suo era un linguaggio moderno, punk. Era un signore che parlava la lingua del suo tempo. Mentre al contrario se sentivi Scalfaro avevi l’impressione di avere a che fare un uomo del secolo scorso, con un linguaggio di un’altra epoca, condito di retorica paludata. Anche Mattarella ha un linguaggio retroattivo. Se tu fai troppo il beneducato in realtà nascondi qualcosa che non vuoi far conoscere. Per tornare a Palamara, quando dici ‘faccia da tonno’ sei un contemporaneo: è per questo che ho ammirato Cossiga, colui che ho iniziato a frequentare parlando di poesia ed era lui stesso in un certo senso un poeta. Era dotato infatti di una insaziabile curiosità intellettuale, come nessun altro politico con cui mi sono confrontato nel corso degli anni.”

Sgarbi ricorda che la lunga frequentazione con il “picconatore” era nata indirettamente grazie al grande poeta metafisico cattolico inglese John Donne, del quale un giorno lesse alcune poesie nel corso di una trasmissione televisiva. Ma premette che l’approccio fu tutt’altro che semplice. “Da parte mia nei suoi confronti vi era una forte antipatia iniziale. Il motivo? Nel 1985 gli mandai un mio libro, che aveva appena vinto il prestigioso premio Estense e lui non mi rispose. Io mi incazzai molto e pensai: ma chi crede di essere? Per vendicarmi scrissi un racconto giallo in cui facevo morire proprio Cossiga. Non so se poi lui venne a saperlo. Poi nel 1990 Cossiga si sveglia dal letargo burocratico e inizia a dire delle cose violentissime contro il potere. Fu allora che il mio atteggiamento verso di lui cambiò e iniziai a guardarlo con curiosità e grande ammirazione perché in fondo avevo iniziato prima di lu quel percorso nelle mie apparizioni televisive. Lui sembrava quasi ispirato al mio modello: potrei dire di essere stato in un certo senso il maestro di parolacce di Cossiga, che iniziò a sua volta a seguirmi con una certa curiosità, forse per la mia irriverenza e anticonformismo.”
La svolta avvenne un giorno a Gaeta quando il giovane critico d’arte, diventato nel frattempo un personaggio televisivo, si sentì chiamare dalla cosiddetta “batteria”, quello strumento inventato nel periodo del fascismo che serviva per garantire le comunicazioni urgenti tra le più alte cariche dello Stato, non solo tra di loro ma anche con deputati, ministri, magistrati, alti dirigenti e giornalisti. Dall’altra parte del filo c’era proprio il Capo dello Stato che gli chiese senza troppi preamboli: “Professor Sgarbi, ma di chi sono quei versi straordinari che ha letto ieri in televisione? Mi hanno molto colpito.” “Gli risposi inorgoglito e gli promisi di mandargli al Quirinale fotocopie e documenti su John Donne. Mi ringraziò e solo pochi giorni dopo mi richiamò per dirmi che aveva trovato nella sua biblioteca un libro di versi di John Donne chiosato a 18 anni e che aveva dimenticato. Era molto orgoglioso di questa scoperta, che avrebbe sempre ricordato come sigillo della nostra amicizia. Pochi giorni dopo mi convocò al Quirinale, ed essendo ormai entrato nell’’epoca delle provocazioni e dei comportamenti eccentrici, nei memorabili discorsi di quei due anni, dal ’’90 al ‘’92, non ebbi preoccupazione a portargli a colazione una bellissima ragazza bionda, una sexy star”.

Quando si parla di Cossiga è inevitabile pensare a un protagonista che nell’immaginario collettivo viene spesso descritto come l’uomo dei tanti “misteri” irrisolti che hanno segnato la storia politica italiana a partire dal secondo dopoguerra: da Gladio a Ustica, passando per il caso Moro e la strategia della tensione. Proviamo a scoprire qualcosa di più al riguardo chiedendo lumi direttamente a chi lo ha frequentato a lungo e conosciuto da molto vicino.
“Questi temi scottanti erano spesso al centro delle nostre conversazioni, ricorda Sgarbi. Parlavamo molto di Ustica, di Gladio. Su Gladio il Presidente è sempre stato molto netto: è un’invenzione. Mi ha spiegato che non c’è da nessuna parte alcun documento che parli di Gladio. Altra cosa era la rete atlantica di Stay Behind, che avrebbe dovuto organizzare la resistenza nei paesi alleati in caso di aggressione dall’Est. Un organismo pur tuttavia di trascurabile importanza, creato sulla base dell’esperienza dello Special Operation Executive voluto da Churchill e dell’OSS americano. Una rete dove entrammo dopo la Germania e solo grazie alla mediazione della Francia perché forse non si fidavano ancora della nostra lealtà. Gladio invece – è bene ricordarlo – è l’organizzazione che poi ha dato vita alla P2, poi finita con un caso assolutorio e quindi nel grottesco. Basti pensare che ne facevano parte personaggi come Costanzo, Noschese, Gervaso ecc. e questi pensavano di far parte di un gruppo come il Rotary dove potevano ritrovarsi per farsi tra di loro quello che oggi si chiama “traffico di influenze”. Gladio era un antefatto della P2 che fu creata per impedire che l’Italia fosse occupata dall’Unione Sovietica, “ma senza la volontà di tentare una eversione politica. È una follia di un’epoca lontana.”

“Lui però su questo non si sentiva colpevole, e non aveva rimorsi”, puntualizza Sgarbi. Al contrario del caso Moro, le cui ferite non si sono mai più rimarginate, e che lo videro in prima linea poiché che al momento del rapimento ricopriva l’incarico di ministro degli Interni. Proprio Aldo Moro è rimasto il suo fantasma più ingombrante, e dal buio della prigione lo aveva costretto a scegliere tra senso dello Stato e senso del partito, come ha ben scritto Muroni nel suo libro”.

“Lui era amicissimo di Moro, era idealmente allievo di Moro – prosegue Sgarbi – ma fu tra quelli che, a differenza di Bettino Craxi (che era per la trattativa) si dovette schierare per la fermezza, così come l’allora segretario comunista Enrico Berlinguer. Una decisione che portò di fatto alla morte di Moro e che ebbe come conseguenza un trauma psicologico evidente, un tormento esistenziale molto profondo con implicazioni anche fisiche (come la vitiligine) che si sarebbero manifestate negli anni successivi. Da qui il suo bipolarismo, tra l’essere l’uomo delle istituzioni ma contemporaneamente un ribelle. Questa contraddizione profonda maturò in lui quando la ragion di stato prevalse sull’affetto umano. Posso affermare che vi è stata in lui successivamente la necessità di volersi liberare del senso di colpa. L’ultimo Cossiga è quello che dice: ‘oggi io avrei salvato Moro e non avrei salvato lo Stato’. Il Cossiga ministro dell’interno si comportò esattamente nel modo opposto. È probabile che la decisione di far cadere i freni inibitori e mettere da parte il linguaggio burocratico fu da un lato una scelta di libertà ma al tempo stesso il punto di arrivo di un lungo trauma interiore iniziato proprio con la vicenda Moro. E quando gli parlavi lui si sentiva colpevole, come se Moro l’avesse ucciso lui, anche perché la sua volontà era stata determinante.”
Le parole di Sgarbi vibrano di nostalgia per l’amico oltre che per il politico e per l’uomo di cultura che avvertiva come pochi altri la doppiezza del potere: come male da un lato ma declinato anche in senso utopico, come strumento per permettere una vita migliore e dignitosa per tutti. “Oggi lo ricordo come una persona viva, sembra quasi di sentirlo che interviene nel dibattito politico. Ci manca molto anche perché è stato un poeta: possedeva infatti il dono di trasfigurare la realtà. Credo che si sarebbe divertito ancora di più rispetto al passato nel prendere in giro politici dal livello a dir poco imbarazzante. Se pensiamo solo a quel che sta accadendo in questi giorni sono certo che avrebbe ridicolizzato un non-partito come i 5 stelle, a conferma del fatto che la politica per essere tale non possa fare a meno di trarre nutrimento dalla cultura. Prima c’erano i partiti tradizionali, la Dc, il Pci, il Psi che esprimevano una certa cultura e che avevano dei riferimenti ideali come Gramsci, Gobetti, Rosselli, De Gasperi, e tanti altri ancora. Oggi purtroppo non più”.