Un sondaggio Ipsos condotto a luglio, rivelava che solo un italiano su tre sarebbe al corrente del referendum costituzionale previsto per il 20 e 21 settembre prossimi, in concomitanza con il rinnovo di alcuni importanti consigli regionali.
Vista la portata politica ed istituzionale di tale referendum, il dato è piuttosto allarmante. Il fatto poi che si tratti di un referendum confermativo, per il quale non è previsto alcun quorum, rende tale situazione ancora più allarmante, affidandone eventualmente l’esito ad un’esigua parte dell’elettorato, come spesso accade in questi casi.
Nello specifico, gli italiani saranno chiamati a confermare la riduzione del numero dei parlamentari, approvata in via definitiva dallo stesso Parlamento nell’ottobre scorso e destinata a portare i membri della Camera dei Deputati da 630 a 400 e i membri (eletti) del Senato della Repubblica da 315 a 200. Gli articoli della Carta Costituzione interessati da tale modifica sono il 56, il 57 e il 59.
Politicamente, la riforma è da sempre uno dei cavalli di battaglia del Movimento 5 Stelle, che l’ha resa di fatto un totem della propria azione di governo, in nome della riduzione dei “costi della politica”, con tanto di sceneggiata finale con striscione e forbici giganti in Piazza Montecitorio nel giorno dell’approvazione definitiva alla Camera.
Partiamo quindi da quello che dovrebbe essere, nelle intenzioni dei promotori della riforma, il vero punto di forza: il risparmio economico derivante dai tagli. Le stime del M5S parlano di 100 milioni di euro all’anno. Non è però dello stesso avviso l’Osservatorio dei Conti Pubblici Italiani guidato da Carlo Cottarelli, che fa giustamente notare che dal calcolo di cui sopra bisogna stornare imposte e contributi pagati allo Stato dagli stessi parlamentari, il che dimezzerebbe di fatto il risparmio finale.
In entrambi i casi l’incidenza sulle casse dello Stato è comunque irrisoria: tra lo 0,012% dell’attuale spesa pubblica, nello scenario prospettato dal M5S e lo 0,007% derivante dal calcolo, molto più accurato, di Cottarelli. È dunque evidente che, in questo caso, il richiamo alla “riduzione dei costi della politica” venga usato solo ed esclusivamente in chiave propagandistica.

Veniamo poi al secondo, ed ultimo, “punto di forza” della riforma: il taglio renderebbe più “efficiente” il funzionamento delle Camere. Qui però, a differenza del punto precedente, si fa davvero fatica a trovare elementi oggettivi capaci di supportare una tale rappresentazione. Anzi, poiché la riforma si limita ad una mera riduzione lineare del numero di deputati e senatori, senza intervenire in alcun modo sui meccanismi istituzionali di funzionamento delle due camere (magari abolendo il bicameralismo), finisce per generare almeno due effetti collaterali distorsivi.
Da un lato, infatti, il taglio metterebbe a rischio la composizione e il funzionamento delle commissioni parlamentari (nelle quali si svolge, tra l’altro, la maggior parte dei lavori delle Camere), dato che il numero delle commissioni resterebbe il medesimo, con un numero, però, significativamente inferiore di parlamentari chiamati al loro funzionamento.
Dall’altro, aumentando il carico di lavoro sul singolo parlamentare e sul suo staff, si allungherebbero verosimilmente i tempi di approvazione delle leggi di iniziativa parlamentare (che prima di essere elaborate, votate e approvate richiedono – o richiederebbero – uno studio approfondito da parte dei singoli deputati e senatori).
Quest’ultimo aspetto rischierebbe tra l’altro di allargare ulteriormente il divario tra le leggi di iniziativa parlamentare e quelle di iniziativa governativa, le quali rappresentano già oggi la stragrande maggioranza delle leggi approvate nel nostro paese, mettendo così ulteriormente in crisi il primato costituzionale del Parlamento nell’espletamento della funzione legislativa.

Ma l’elemento certamente più delicato ad essere messo in discussione dai tagli previsti dalla riforma è quello della “rappresentanza”, principio cardine di ogni sistema democratico.
Qui va innanzitutto sfatato un altro luogo comune piuttosto diffuso, in base al quale l’Italia avrebbe un numero spropositatamente alto di parlamentari. In realtà, il numero di deputati ogni 100.000 abitanti in Italia è attualmente pari a 1, pressoché in linea con quello di Francia e Germania (entrambe a 0,9) e identico a quello dell’Inghilterra. Solo la Spagna si colloca a 0,8. Anche il numero di senatori ogni 100.000 abitanti (attualmente pari allo 0,5) è in linea con quello di Francia e Spagna, rispettivamente a 0,5 e 0,6.
Fatta questa doverosa premessa, è importante capire come inciderebbe il taglio dei parlamentari sul principio della “rappresentanza”. Le implicazioni sono infatti molteplici e dipendono in gran parte dalla legge elettorale in vigore, che va però ricordato è una legge “ordinaria” e in quanto tale può essere cambiata in qualunque momento, da qualsivoglia maggioranza. Già questo aspetto basterebbe per cogliere le profonde lacune della riforma costituzionale in oggetto, i cui effetti potrebbero variare in maniera significativa subordinatamente ad una legge ordinaria, invertendo così la gerarchia normativa prevista dalla Costituzione stessa.
Il sistema elettorale attuale, ad esempio, che mischia aspetti proporzionali e maggioritari, abbinato al taglio dei parlamentari oggetto della riforma, porterebbe di fatto a una soglia di sbarramento effettiva per le singole liste molto più alta rispetto a quella attuale, pari al 3%, tenendo fuori dal Parlamento buona parte dei partiti minori che si presentano alle elezioni e rischiando così di attribuire alla coalizione vincente una maggioranza parlamentare bulgara, soprattutto al Senato.
La riforma genererebbe anche uno sbilanciamento in termini di rappresentanza a livello regionale, in particolare al Senato, dove i seggi sono attribuiti, appunto, solo su base regionale. La diminuzione dei parlamentari comporterebbe inevitabilmente una rappresentanza molto più esigua, se non nulla, dei partiti minori, specialmente nelle regioni meno popolose: emblematico è il caso di Umbria e Basilicata che passerebbero dagli attuali 7 senatori a 3 ciascuna. Altra forzatura, in senso opposto, è quella del Trentino-Alto Adige, che nonostante conti solo un milione di abitanti, potrà eleggere ben 6 senatori (3 per la provincia autonoma di Trento e altrettanti per quella di Bolzano), mentre una regione come l’Abruzzo, che conta invece un milione e trecentomila abitanti, finirebbe per averne solo 4.
Infine, seppur minoritaria rispetto agli aspetti discussi sopra, c’è la questione dei senatori a vita di nomina presidenziale, il cui numero massimo, sulla base della riforma, non potrà mai essere superiore a 5, ma che sono destinati ad acquisire un peso specifico maggiore a scapito dei senatori eletti direttamente dai cittadini, dato che il numero totale dei membri del Senato passerà, appunto, da 315 a 200.
In conclusione, il problema vero della riforma voluta dal Movimento 5 Stelle non è la riduzione del numero dei parlamentari di per sé, bensì l’assenza di una più ampia revisione degli attuali assetti politico-istituzionali dei nostri organi legislativi, capace da un lato di ammodernare il paese e dall’altro di indirizzare e scongiurare i rischi descritti sopra. Così facendo, invece, si confondono i costi della “politica”, con i costi della “democrazia”, ed il prezzo prospettato sembra decisamente troppo alto per la nostra già claudicante Repubblica.
Ps-proprio mentre stavo scrivendo questo pezzo, è uscita la notizia dei 5 parlamentari che avrebbero (vergognosamente) richiesto all’Inps di usufruire del bonus Covid, previsto dai decreti “Cura Italia” e “Rilancio”. Qualcuno si è affrettato a dire che ciò darebbe ancora più forza ai promotori della riforma di cui sopra. In realtà, l’unica cosa che questa vicenda dimostra, è che il problema principale della nostra classe politica è di natura qualitativa, più che quantitativa.