Anche se “questa” America è lontana, non lo è abbastanza per no occuparsene; perché, piaccia o no, è lei che si occupa di noi. Anche quando mostra di non farlo. Si dice che il battito delle ali di una farfalla in Cina può influire sul percorso di un uragano nell’Atlantico; figuriamoci il “battito” degli Stati Uniti. Da questo punto di vista, quello che accadrà fra meno di cento giorni sarà decisivo: per gli americani, per il resto del mondo.
E’ credibile che Donald Trump venga riconfermato presidente? Tutto fa pensare che sarà sconfitto. Ma tutti lo davano sconfitto anche quattro anni fa. Vero è che tutto è mutato: negli Stati Uniti e nel mondo. Tuttavia…
Televisioni e siti web mostrano immagini che fino a qualche mese sarebbero state parte di un film fantascientifico: truppe scelte americane che sono utilizzate nel suolo americano per combattere (non c’è altro termine) connazionali americani. Dalla più grande città dell’Oregon, Portland, immagini che inquietano, preoccupano.
Contro manifestanti, quasi sempre pacifici, che protestano contro gli abusi e le violenze della polizia culminate con l’uccisione di George Floyd, il presidente Trump (quanto mai appropriata la definizione del regista Spike Lee: “Agent Orange”), scaglia i federali degli U.S. Marshall, i Bortac, le truppe speciali dell’ICE, personale inquadrato in società privato; contractors, mercenari insomma.
La storia è completamente diversa. Qualcuno ricorderà “The Siege”, un film di Edward Zwick del 1998, con Denzel Washington, Annette Bening, e Bruce Willis.
Racconta di attentati terroristici a New York da parte di islamisti, ma anche dell’attività oscura, segreta, sostanzialmente criminale, della CIA. C’è un generale americano, in nome della “law and order”, cinge d’assedio New York; ci sono due agenti dell’FBI che – come comanda l’inevitabile happy end – riescono a far trionfare la legge e la giustizia.
Le immagini (vere) da Portland ricalcano quelle mostrate nel film: stessi “uomini in verde”, in assetto da combattimento; stessi indiscrimiati rastrellamenti, stessa indiscriminata violenza, si procede ad arresti come se i soldati avessero poteri di polizia giudiziaria, randellate a chiunque abbia la sventura di capitare a tiro, una giurisdizione speciale che scavalca quella istituzionale
Ci sarà anche a Portland, e nelle tante Portland degli Stati Uniti, un Anthony Hubbard in grado di fermare un William Deveraux che si trova alla Casa Bianca e gioca con spregiudicato cinismo tutte le carte per essere riconfermato?
Meno di cento giorni, per sapere se si ritroverà lo spirito dei “padri fondatori”, oppure se ci attendono tempi ancora più cupi di quelli trascorsi.
Ma come è possibile che accada quello che accade, e che sia potuto accadere? Mary L.Trump, psicologa, nipote del presidente, nel suo “Too Much and Never Enough” fornisce una spiegazione non priva di plausibilità.
Racconta di una famiglia che ha fatto dell’avidità la sua cifra, animata da un cinismo che raggiunge punte di sconcertante brutalità, vere e proprie faide che inevitabilmente “segnano” il futuro Presidente. Si conceda che abbia calcato la mano per vendere qualche copia in più. Si faccia la tara opportuna: ne resta quanto basta per giustificare sconcerto e inquietudine: un personaggio con una personalità mentalmente disturbata al vertice della maggiore potenza mondiale. Sconcerto e inquietudine che al pensiero dei rischi e dei pericoli corsi dagli Stati Uniti, dal mondo intero; e che ancora possono correre, se dovesse ottenere un secondo mandato.
Il libro di Mary L.Trump “racconta” come l’inquilino della Casa Bianca sia irrimediabilmente segnato da una tara familiare che ha prodotto comportamenti all’insegna dell’inganno e della menzogna; e insieme un patologico narcisismo spiegabile con la “necessità” di essere all’altezza di un pessimo genitore, disposto a tutto pur di vincere e primeggiare; una megalomania che peraltro si è manifestata spesso, attraverso sintomatiche auto-definizioni: “Sono il più grande”, “Sono il migliore”, e via così.
Ripeto: si faccia la debita tara, di quanto che scrive la nipote. Quello che resta, basta e avanza.
C’è comunque un contesto, al di là di Trump, su cui conviene interrogarsi. Com’è possibile, per quanto brutale e disgustosa sia stata l’uccisione di Floyd, che sia scoppiato quello che si è scatenato? Di tutta evidenza che il delitto di Minneapolis, è stato un po’ come il colpo di pistola del serbo-bosniaco Gavrilo Princip contro l’arciduca Francesco Ferdinando e sua moglie Sofia il 28 giugno 1914. Ha innescato la miccia che ha fatto esplodere una polveriera. Qui giova riflettere sulla “politica” di Trump: non ha mai ritenuto di dover condannare esplicitamente gli atteggiamenti violenti dei gruppi razzisti ed estremisti come quello che ha imbracciato le armi e dato l’assalto al Parlamento del Michigan. Trump e i suoi più ascoltati collaboratori, in nome della decantata “America first”, hanno sempre mantenuto una sostanziale ambiguità (che sconfina con la complicità), verso l’estremismo suprematista bianco. Il secondo elemento è atteggiamento di ostilità nei confronti di tutte le etnie non bianche. che sono diventati un obiettivo discriminatorio della sua politica. Negli Stati Uniti il razzismo è una cattiva bestia tutt’altro che doma, e che anzi può essere considerato un fenomeno endemico. Trump – qui è la gravità – lo ha come legittimato, ha consentito che potesse emergere senza contrastarlo.
Negli ultimi mesi, gli Stati Uniti si trovano inoltre a fare i conti con il Covid-19: una pandemia niente affatto “democratica”, se è vero che ha colpito e colpisce maggiormente le fasce marginali, e in particolare la gente di colore. In queste fasce, i morti per il Covid-19 sono tre volte più dei bianchi. Il Covid-19 rivela le disuguaglianze che con Trump si sono estese e cronicizzate.
Tutti i sondaggi, concordi, dicono che la popolarità del Presidente è in netto declino; in generale, e anche in molti stati chiave che nelle passate elezioni lo hanno premiato. Tutto fa pensare (e sperare) che sia battuto. Anche in quegli stati come Pennsylvania, Michigan e Wisconsin, dove ha trionfato, e gli hanno “regalato” la Casa Bianca.

Trump, di fronte al calo di consensi, nelle prossime settimane, con cinismo e spregiudicatezza accentuerà lo scontro: con decreti presidenziali che non devono passare per il Congresso, giocherà la carta del “nemico interno”; si accrediterà non come Presidente ma come “Commander in chief”. Esalterà il “Nemico”: quello interno, i “terroristi”; e quello esterno, i cinesi. Indosserà sempre più l’elmetto, minaccerà il ricorso alle armi dell’esercito che, nello Stato federale, non può intervenire sull’ordine pubblico. Questo il “messaggio” di cui Trump e i suoi consiglieri si faranno portatori. Perché l’obiettivo, costi quel che costi è restare al potere.
In un’America spaccata in due, Trump è forse il primo presidente che non fa nulla per unire, e fa di tutto per dividere. Il suo scopo, la sua “missione” è accentuare le divisioni esistenti, alimentarle, nutrirle.
E’ affare che riguarda il resto del mondo? Sì. Piaccia o no. Perché fino a Trump, anche se con accenti e declinazioni diversi, gli Stati Uniti sono stati la guida dell’Occidente liberaldemocratico. Con Trump, c’è come stato un black-out; più di sempre gli Stati Uniti si sono chiusi in se stessi, indifferenti, ostili.

Il sistema americano concepito dai Padri costituenti, fondato sullo stato di diritto, su pesi e contrappesi istituzionali, sui diritti dell’individuo, finora, con alti e bassi, ha resistito, “tenuto”. Ma non è detto che regga con altri quattro anni di Trump. Per questo c’è da augurarsi che Joe Biden, che indubbiamente non rappresenta per molti il candidato ideale, sia accettato e votato. Lo hanno compreso repubblicani come George Bush jr., come Mitt Romney; la vedova di un’icona come John McCain, Bill Kristol, animatore del movimento “End Trump’s American Carnage”; l’ex governatore dell’Ohio John Kasich, che, nel 2016, fu l’ultimo aspirante alla nomination repubblicana ad arrendersi a Trump… Sarebbe davvero imperdonabile che non lo capiscano i seguaci e i sostenitori di Bernie Sanders.