Verrebbe da dire: Alfonso Bonafede come metafora. Di un tempo politico e morale, della sua conseguita putrefazione.
Solo così, infatti, schivando le insidie della “lettera”, dell’asfittica cronaca fissa sull’attimo: mozioni, discorso ministeriale, dati, più o meno affastellati, “fatti”, più o meno occultati, si può tentare di cogliere il senso, nemmeno tanto riposto, di questo “passaggio parlamentare”.
Doveva essere la rappresentazione lacerante di un tracollo: etico, culturale, politico, istituzionale: è stato un trionfo irregimentato, del cinismo, della menzogna. Senza sussulti. Senza turbamenti.
Il senso è questo: l’Antimafia “militante” è legibus soluta. Fuori della legge; oltre la legge; senza legge. E qui non si discute di legge “legale”, che si acquieta sulla Gazzetta Ufficiale. Ma di quella che ciascuno decide di accendere o soffocare, secondo la sua propria cifra etica. Fatta di umana verità e di razionale intelligenza. E che decide della rispettabilità di quella. Cielo stellato; legge morale; dentro di me.
Una tale legge, quando c’è, tormenta le ore notturne, sospende quelle diurne, e arrovella e morde, perché è inappagabile da un reticente resoconto, predisposto da un qualche ufficio ministeriale. Quando non c’è, mette capo proprio a parole come quelle pronunciate da Bonafede al Senato: formali, burocratiche, disanimate. Amorali. E amoralmente approvate.

Perciò, la questione è, si può dire, “universale”: riguarda certo i protagonisti visibili, Bonafede, Di Matteo, ma non meno e, anzi, di più, chi osserva, o chi non osserva, da casa. Perché ha deciso di distogliere lo sguardo. Non c’ero: e, se c’ero, dormivo.
La “linea”, per quest’ultima specie di “osservanti”, era stata dettata, con potente e non casuale caveat, dal dott. Giancarlo Caselli: “Una guerra fra persone perbene, ambedue ben consapevoli che ci si può dividere su tutto ma non nella lotta alla mafia”. Sottotesto. Non si deve discutere. Ma troncare, sopire. Dal Conte-Zio di Manzoni al Procuratore-Zio del Fatto Quotidiano, per l’osservatore “osservante”, è un attimo. Ci sono secoli di controriformismo, di gesuitismo, che stratificano giacimenti di ipocrisia inesauribile e poi, “un Padrenostro e una Messa a Mezzogiorno”, e tutto si aggiusta, avrebbe osservato Sciascia.
Così Bonafede, col suo “discorso”, è venuto a recitare il suo bravo Padrenostro, nella Messa Parlamentare predisposta per l’occasione. Erano, infatti, noti, gli “orientamenti” delle “forze di maggioranza”. Di questa recita salmodiante del Ministro, ricorderemo qui solo due strofette.
Una è stata cantata sulle norme che “hanno consentito le scarcerazioni”; il tema “di superficie”, lo sappiamo, era quello di alcuni detenuti ammessi, dalla Magistratura di Sorveglianza, alla detenzione domiciliare per Covid. Erano norme del 1930 (Codice Penale), o del 1975 (Ordinamento Penitenziario), ha scandito Bonafede; noi” (il M5S, si può supporre, considerando anche la sua qualità di Capo-delegazione del Movimento nel Governo) non c’entriamo. Noi “non c’eravamo”.
Rilievo surreale e insieme subdolo.
Surreale, perché una legge, una volta promulgata e fino a quando non è abrogata, non è del tal giorno o del tal anno ma, per così dire, è semplicemente “viva”; sicché, è del 1930 o del 1975, non meno che del 2020, e acquisisce una nuova data di nascita ad ogni giorno che passa. E basterebbe rilevare, a cogliere l’assurdità del rilievo, che la Costituzione è del 1948, e nemmeno allora (per fortuna) il M5S esisteva e, tuttavia, non si potrebbe negare la sua “attualità”; né la legittimità, o “merito formale”, di un Governo pur formato da soggetti politici che non la votarono.
Ma l’assurdità è solo apparentemente fine a sè stessa, cioè, spiegabile col garbuglio neuronale del Ministro. Il suo carattere subdolo si definisce nell’improntitudine (figlia della disinvoltura logica), con cui viene affermato che il suo Decreto (quello del 9 Maggio, con cui ha “rimediato” alle scarcerazioni) rispetta “l’autonomia e dell’indipendenza della magistratura”. La seconda strofetta.
Ha fatto esattamente il contrario. La Magistratura ha provveduto sulla base delle leggi vigenti; e non c’era altro da dire sul “tempo normativo”; ma il Ministro, con la sua maggioranza, le ha modificate in corso d’opera. Additando le “cattive” leggi, e non, a suo dire, i provvedimenti giudiziari (legittimi) che quelle leggi avevano attuato, nè gli autori della “attuazione”. Una lucida babele.
Un suo più illustre predecessore in Via Arenula, Gianmaria Flick, ha lapidariamente commentato: “una legge che rimetta dentro le persone scarcerate dai giudici è impensabile… esiste il divieto di applicare retroattivamente una legge che cambia sostanzialmente il significato della pena in senso sfavorevole”. Impensabile, secondo Costituzione. Ma non secondo Bonafede, e mentori. Che sono oltre la legge, fuori della legge, senza legge. Mascherando lo scempio da “accorgimento procedurale”.
Introdotto il parere obbligatorio della Procura Antimafia, nei casi di detenuti per reati “Antimafia”, si è fatto esattamente quello che si nega di aver fatto. Nelle parole asciutte di Flick: questo intervento “può rappresentare una forma di pressione indiretta sul giudice di sorveglianza”: perché accrescere il ruolo della procura antimafia, “significa scaraventare un peso molto grosso sulla bilancia, con cui si cerca di trovare un equilibrio tra le istanze della salute e della sicurezza”. Cioè, detta come va detta: si è fatto strame dell’autonomia e dell’indipendenza della Magistratura.
L’ “Amen”, con cui si è chiusa la performance liturgica, è in conformità: una bella Commissione sulla “durata del processo”; chiusa che specificamente si deve, a quanto pare, all’impavida strategia politica di Matteo Renzi.
Ora, queste due strofette del Padrenostro bonafediano, ci riportano a ció che è stato troncato e sopito. Giacché, la collisione Di Matteo/Bonafede era ed è collisione “di sistema”, ed era del pari “impensabile” che una parola di verità venisse dal discorso sulla sfiducia. Suo e degli “oppositori”, interni ed esterni alla Maggioranza.
Doveva venire dagli osservatori; dai “cani da guardia della democrazia”. Ma questi, conformemente alla infausta tradizione stigmatizzata da Sciascia, e sull’abbrivio-istruzione caselliana, non osservano. Persone perbene.
Così, non osservano ció che quella collisione, solo a non chiudere gli occhi, mostra in tutto il suo profondo immoralismo.

Non osservano che non di Covid e scarcerazioni, se non in superficie, si doveva discutere: ma di una stratificata sopraffazione che, con l’invenzione della Trattativa, ha edificato una mitologia inquinante e cancerosa, grazie alla quale due generazioni di italiani hanno imparato a maledire la Costituzione: con le sue “complici” presunzioni di non colpevolezza, e le sue “ragionevoli durate del processo”, rese protervamente irragionevoli dalla micidiale “prescrizione mai”.
E hanno imparato ad odiare la Repubblica: nata e cresciuta, secondo questi Pessimi Maestri, non in un corso storico da spiegare lucidamente nelle sue complessità; ma fra “segreti indicibili”, di cui fare uno scrigno fanatico.
E hanno imparato a disprezzare la sua storia: scritta e riscritta nel nome di Falcone e Borsellino, proprio da coloro che, in vita, li perseguitarono, colpendoli con ogni mezzo istituzionale, e, fino alla fine, tacciando Falcone di essersi “venduto” (domani, lo show telematico-commemorativo). Permanentemente proteggendo le mani e le menti che vollero anche il sangue di Paolo Borsellino, con una trentennale, meticolosa, lurida, infame, azione insabbiatrice e depistatrice. Se non peggio.
Giungendo a “normalizzare” una barbarie diffusa e corrivamente accetta che, Covid o non Covid, ci pone in una condizione democraticamente molto compromessa.
Di questo, un Senato popolato in maggioranza da uomini e donne, e non da pagliacci obliqui, avrebbe dovuto discutere: cogliendo l’occasione della chiacchiera sui “boss scarcerati” (3, e non 300, come puntualmente rilevato su questo giornale da Giacomo Di Girolamo; di “una tempesta in un bicchiere d’acqua”, ancora Flick, ha scritto a questo proposito). Di questo avrebbe dovuto pretendere che si discutesse.
Che “La Trattativa” fosse il Convitato di Pietra della “questione di fiducia”, del resto, lo scrive, sia pure fra avventurismi psicologici del cui rischio si è voluto dire consapevole, lo stesso dott. Caselli: “penso che la molla, il fattore scatenante dell’intervento di Nino Di Matteo sia stata la parola ‘trattativa’”.
E si capisce. Parola-Simbolo, da neutra, se non umanamente positiva, metamorfosata in Nemico Assoluto. Per “discutere” del Convitato di Pietra, questo Senato votato all’indegnità della servitù volontaria, nella totale assenza di sè, poteva almeno copiare le parole, rese tre mesi fa in un’aula di giustizia, da una grande donna, dal grande nome.
Riferendosi al dott. Di Matteo, ha detto: “Ho ascoltato molto attentamente le cose che ha detto e rimango sempre stupita da questa difesa oltre che personale a oltranza di questi magistrati e poliziotti che si sono occupati dell’indagine sulla strage. Ma sembrano tutti passati lì per caso”; e prima: “Sono delusa dal ministro Bonafede, gli archivi del Sisde non sono ancora aperti”. E sta ancora aspettando, dal Gennaio 2019. Quando lui, “loro”, invece, “c’erano”.
La donna si chiama Fiammetta Borsellino. Loro, sono il Senatus Populusque Ruffianorum.