Questa nota comincia con un’apparente contraddizione. Alla domanda: che valutazione dare dell’operato del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede? Negativa. Forse non il peggiore ministro della Giustizia della storia repubblicana recente; il suo predecessore, il leghista Roberto Castelli, gli contende legittimamente la palma. Ma insomma: è un bel duello. Se si fosse stati parlamentari chiamati a votare la sua sfiducia che voto? Non sfiducia. Non per consenso dell’operato del ministro; perché le due mozioni presentate (una dall’opposizione di centro-destra, Massimiliano Romeo, Luca Cirianni, Anna Maria Bernini; l’altra da Emma Bonino di Più Europa), sono entrambe un qualcosa di irricevibile. Non tanto sul piano tecnico, quanto sul piano politico e istituzionale.
Quello della Giustizia è un ministero “forte”. Assieme a Interni, Difesa, Esteri, Finanze, è il “cuore” e il “cervello” dello Stato. Uno starnuto del ministro della Giustizia, se fatto in quanto ministro è atto istituzionale che coinvolge e riguarda l’intero esecutivo, se l’esecutivo non lo smentisce. Dunque, se ci sono atti di governo del ministro della Giustizia che non sono smentiti, diventano automaticamente atti dell’intero esecutivo. Non ha senso la smentita ad personam. Se si mette in discussione l’operato di Bonafede, si mette in discussione l’operato del presidente del Consiglio e del suo governo. Questi sono i fondamentali. Presentare – non si discutono le motivazioni – mozioni di sfiducia individuali significa che si vuole fare “la mossa”.
Appunto la “mossa” si è fatta. La “mossa” l’ha fatta il centro-destra, e fin qui, nulla da dire: chi è all’opposizione fa il suo gioco come meglio crede e sa. La “mossa” l’ha fatta Matteo Renzi con la sua “Italia Viva”, con il supporto di Emma Bonino e “Più Europa”, che si è prestata al gioco. Qui, tocca lasciare la scena e andare al retroscena. “Italia Viva”, lo certificano tutti i sondaggi demoscopici, non riesce a schiodare dal 2-3 per cento di consenso. Renzi ha un grosso problema: un discreto gruppo parlamentare, risultato della scissione dal Partito Democratico, ma scarsissimo seguito nel paese. E’ alla spasmodica ricerca di consenso. Pensa, crede, che più si agita, più si rende visibile, più fa il “Pierino” della situazione, più guadagna crediti. Al momento non sembra che così vadano le cose, ma lui insiste: un piede al governo, l’altro all’opposizione; un ibrido: un giorno carne, l’altro pesce, a seconda della convenienza presunta del momento. In più ha un ego ipertrofico da soddisfare. Un po’ come la rana di Fedro, si gonfia e si gonfia, pensando di poter assumere le dimensioni del bue. Poi però deve fare i conti con la legge della realtà. Quando il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, e giù per li rami, il presidente del Consiglio e il segretario del PD Nicola Zingaretti gli hanno comunicato che se cade Bonafede cade il governo, e che se cade il governo si va al voto anticipato, anche l‘ego ipertrofico ha preso atto che la corda era a un pelo da rompersi con esiti disastrosi: per cui già un paio di giorni prima del voto, la fedelissima Maria Elena Boschi si è prodigata in una paziente azione di rammendo.
Torniamo alla scena: Emma Bonino presenta la mozione si sfiducia, si accolla la parte “sporca” del lavoro. L’accordo, al pari dei ladri di Pisa che litigano di giorno e di notte si spartiscono il bottino, comunque è raggiunto. Renzi in prima persona annuncia la non-non-sfiducia. Accusa Bonafede, poi tira il freno a mano. Bonafede resta ministro. Il governo resta in carica; in quanto alle elezioni si vedrà: in autunno, o quando…
Domanda: perché Bonino si è prestata a questo giochino? Il cartello di “Più Europa” è da tempo sfasciato. Bruno Tabacci ha mollato, e veleggia verso altri lidi in autonomia. Bonino secondo i sondaggi ha ancor meno credito di Renzi; può sperare, per tornare a Montecitorio o a Palazzo Madama, in un cartellino elettorale con lo stesso Renzi e Carlo Calenda di “Azione”; insomma, 1 + 1 + 1 che in politica mai fa 3, spesso fa 2, a volte resta 1 se non meno. Ma questi forse sono cattivi pensieri di un frequentatore quarantennale della politica italiana che ha imparato i rudimenti e le astuzie da un volpone che si chiamava Marco Pannella.
Si può provare ad entrare nel merito delle due mozioni di sfiducia. Quella del centro-destra si concentra sulla vicenda della nomina al vertice del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, con le polemiche scaturite dopo le dichiarazioni del pubblico ministero Nino Di Matteo, e sulle rivolte scoppiate nelle carceri i primi di marzo con la diffusione del Covid 19. Bonafede è accusato di aver gestito male la situazione che ha portato alla norma sulla scarcerazione dei detenuti con una pena detentiva non superiore a 18 mesi, e poi alla scarcerazione di boss mafiosi che soffrivano di patologie che li esponevano a maggiori rischi in caso di contagio. A cui poi è seguito un decreto per farli tornare in cella. La mozione critica anche il ministro perché negli istituti carcerari non sono stati predisposte “adeguate misure di prevenzione sanitaria e anti-contagio a tutela di detenuti, operatori e visitatori”.
Di altro “segno” la mozione Bonino. Pone l’accento sull’abolizione della prescrizione voluta da Bonafede “in violazione del principio di ragionevole durata del processo”, sul fatto che non sia stata ancora presentata la riforma del processo penale, sulla difficile condizione delle carceri durante la diffusione del coronavirus, sulle polemiche per le influenze che il suo ministero avrebbe esercitato nelle nomine al Csm. La mozione si sofferma poi sulle polemiche seguite alla scarcerazione di imputati e condannati per reati di criminalità organizzata e mafiosa. “La reazione dell’esecutivo – si legge – è stata confusa e contraddittoria, fino a giungere all’adozione di un decreto legge che ha imposta la revisione, con effetto retroattivo, delle decisioni precedentemente adottate dei giudici di sorveglianza, con un vulnus esplicito e dichiarato al principio della divisione dei poteri”.
Cominciamo dalla mozione Bonino: “La reazione dell’esecutivo…”.E prima ancora tutta una serie di provvedimenti del Governo; non del ministro. Compreso il decreto legge che, si sostiene, ha inferto un “vulnus esplicito e dichiarato al principio della divisione dei poteri”. Toccherebbe ripetere quello che si è detto prima: o si sfiducia Conte, oppure non ha senso.
Nella sostanza. Tutto questo finimondo nasce dallo scontro televisivo tra il ministro della Giustizia Bonafede, e il pubblico ministero, attualmente membro del Consiglio Superiore della Magistratura Nino De Matteo.
Nel caso ipotetico si trovassero, il ministro e il magistrato, su una torre, chi buttar giù? Per quello che mi riguarda, la torre, senza esitazione. Conviene riavvolgere il nastro, ricapitolare brevemente come si è dipanata la polemica. Il ministro Bonafede per tante ragioni è la persona sbagliata nel posto sbagliato, e ha fatto una quantità di cose sbagliate. Si stende un velo pietoso su penosi svarioni, come quando affermò che gli innocenti in carcere non ci vanno. Le norme di cui si è fatto alfiere sulle intercettazioni sono un oltraggio giuridico; e non parliamo dell’obbrobrio sulla prescrizione. Conviene limitarsi al punto, la “piazzata” televisiva.
Di Matteo accende la miccia; racconta che un paio d’anni fa il ministro gli offre di essere il capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ma – a scelta – anche di dirigere l’ufficio Affari Penali; per capirci, l’ultimo incarico istituzionale di Giovanni Falcone. Di Matteo chiede del tempo per valutare l’offerta, infine scioglie la riserva. Va bene il DAP. Nel frattempo però il ministro ha cambiato idea: quel posto è per un altro magistrato, Francesco Basentini, dimessosi dall’incarico giorni fa. Non si fa nulla né per il DAP e neanche per gli Affari Penali. Nel suo intervento Di Matteo non collega esplicitamente il cambio di idea del ministro con i “rumors” provenienti dalle carceri e specificatamente dagli affiliati alla Cosa Nostra o altre organizzazioni criminali. Però chiunque assiste alla trasmissione ha l’impressione che tra le due cose ci sia un nesso: per Di Matteo il ministro ha “ceduto” a innominabili e inquietanti pressioni. Impressione che deve aver avuto lo stesso ministro, che interviene telefonicamente ed esprime il suo sdegno e stupore.
Comincia un qualcosa degno di una pochade dell’assurdo. In una situazione normale chi scaglia il sasso, chi muove l’accusa, è tenuto a provarla, esibire le pezze d’appoggio. Ma non sono tempi normali. E’ al ministro accusato, o quantomeno sospettato, che si chiedono spiegazioni, nei suoi confronti si presentano individuali mozioni di sfiducia.
Da che mondo è mondo (in un mondo di giustizia e diritto, beninteso) è l’accusatore e non l’accusato che deve dare spiegazioni. Dunque è Di Matteo che dovrebbe chiarire il senso delle sue affermazioni; successivamente, una volta accertato e compreso che cosa intende davvero dire, allora è il ministro a dover e poter replicare; e giustificarsi, se c’è qualcosa di cui giustificarsi.

Ancora: il DAP è un incarico prettamente politico: dipende direttamente dal ministro, che a sua volta è soggetto a regole e riti politici; può piacere o no, ma così è. Di Matteo queste regole, questi riti, certo non li ignora. Aver manifestato una disponibilità a riflettere se rispondere positivamente o meno all’invito è di per sé esplicita accettazione di queste regole, di questi riti. Il responsabile del DAP guadagna tre volte lo stipendio di un magistrato, esce dal ruolo, si trasforma il braccio esecutivo del ministro, ne attua le direttive, frutto di scelte politiche. Il ministro sceglie, sulla base di criteri e valutazione che gli appartengono, e non sono sindacabili. Il ministro – siamo tutte persone di mondo – sceglie sulla base di considerazioni e di criteri che possono esulare dalla specifica competenza, e cedere a pressioni ed interessi che non sono direttamente collegabili alla funzione da ricoprire; questo appartiene alla forza contrattuale di cui dispone da una parte il ministro, e agli equilibri che lo hanno portato al vertice del ministero. Un conto sono “bilancini” e compromessi politici; altro se la decisione è il risultato di impostazioni che possono prefigurare un possibile reato. Se così fosse, la cosa non dovrebbe essere “denunciata” nel corso di una “piazzata” televisiva; e comunque non dopo che sono trascorsi due anni.
Per come si è svolta tutta la vicenda, dovrebbe intervenire il Consiglio Superiore della Magistratura, per fare ed esigere un minimo di chiarezza; e, sia pure nelle forme e nelle modalità compatibili con la delicatezza dei tempi che viviamo, il primo a volerlo dovrebbe essere il capo del CSM, il presidente della Repubblica; o almeno dovrebbe sollecitare un intervento del suo vice. Tutti, invece, stranamente, curiosamente, silenti, assenti. Questo quieta non movere è senz’altro la cosa più deleteria. Chiudere la vicenda a “tarallucci e vino” senza fare chiarezza, questo sì, costituirebbe l’ennesimo contributo al discredito delle istituzioni. Non ce n’è davvero bisogno.
Su questa vicenda, poi si innesca una ulteriore polemica, le cosiddette scarcerazioni facili. Un bel polverone. Bonafede, riferendone alle Camere, spiega che sono disposte dai giudici, non sono riferibili a lui o al DAP. Ha ragione. Sono i magistrati che decidono, e i recenti decreti sul Coronavirus non c’entrano nulla. Anche la famosa circolare del DAP viene tirata in ballo a sproposito. La circolare si limita a chiedere ai direttori delle carceri la situazione dell’istituto che dirigono. Una sorta di censimento. Il DAP e lo stesso ministro non possono disporre nulla; i giudici hanno disposto le scarcerazioni applicando una legge e delle normative preesistenti, e i decreti del Governo riguardano altro. Insomma: i giudici hanno solo applicato la legge che disciplina i casi di incompatibilità tra regime carcerario e salute del detenuto. Si può trovare discutibile la decisione assunta, se le loro valutazioni siano o no fondate. Ma è discorso completamente diverso dal polverone che si è voluto sollevare.
Qui occorre essere chiari. In buona fede (ma molti in pessima fede) pongono una questione che si può così riassumere: con la scusa del Coronavirus, e sotto il ricatto di rivolte carcerarie sapientemente alimentate, 376 pericolosi affiliati alla Cosa Nostra, alla ‘ndrangheta, alla camorra, sottoposti al regime 41bis, vengono scarcerati. E’ opportuno chiarire: al regime 41bis non erano sottoposti il 376, ma in tre. I tre risultano affetti da tumori e da cardiopatie che mettono a rischio la loro vita e la loro incolumità. Non possono (lo dice la legge, non un magistrato) restare dove erano reclusi. Il sistema penitenziario, così come è strutturato attualmente, non è in grado di assicurare a quei tre le garanzie e le tutele che la legge garantisce loro. I casi a questo punto sono due: ai giudici che si sono limitati ad applicare la legge, si chiede (anzi, si impone) di disattenderla. Oppure si cambi la legge, stabilendo che per delinquenti come mafiosi, ‘ndranghetisti, camorristi e affini, certi diritti, certe garanzie non hanno valore. C’è poi una terza possibilità: dotarsi di un sistema penitenziario che non sia quello che abbiamo, e dotarlo di quelle strutture e di quelle risorse che consentano a chi è malato di potersi curare. Per ora si preferisce puntare il dito accusatorio contro i magistrati di sorveglianza.
A parte i tre, gli altri? Qui viene il bello, cioè il brutto. Sono boss presunti. Nel senso che pur se ristretti in carcere da anni, il loro iter giudiziario non è concluso, sono in attesa di sentenza definitiva. Magari può pure essere che siano assolti? E comunque, il problema è: perché i processi ci mettono così tanto tempo a essere celebrati? Può anche essere che la malavita organizzata abbia sobillato le rivolte violente delle settimane passate. Rivolte che hanno avuto vasta eco mediatica, servizi su servizi in televisioni, radio, giornali. I detenuti – sobillati o meno che siano stati – protestavano per le condizioni in cui sono costretti a vivere. E’ dal 2016 che hanno protestato in modo civile e nonviolento; ci sono stati accorati appelli del Papa e del presidente della Repubblica. Niente, non una parola scritta o parlata che fosse. Disinteresse totale. Poi, quest’anno alcune rivolte violente in alcune carceri; ed ecco che si sono versati fiumi di inchiostro, un oceano di parole. Cosa deve mai pensare chi vuole che la sua causa sia conosciuta? Qui si entra nel vivo di una questione di cui Bonafede è direttamente responsabile; su questo dovrebbe essere chiamato a rispondere, e vai a capire perché nessuno gli chiede o gli rimprovera nulla. Il ministro avrebbe potuto e dovuto predisporre infermerie e settori che garantiscano la salute dei detenuti e tutto il mondo che “abita” e frequenta il pianeta carcere, senza dover ricorrere alle scarcerazioni. Certo: è una situazione di cui Bonafede non è responsabile, è una “eredità” che viene da lontano, anni e anni di inerzia e incapacità di governare la situazione. Ma la responsabilità di Bonafede è di non aver fatto nulla da quando è ministro della Giustizia. Nulla quando era ministro della Giustizia del primo governo Conte. E nulla ora. Semplicemente non fa parte del suo DNA, del suo “orizzonte”.
Molti con la pensosa vacuità di pensiero che li connota, sillabano che la Cosa Nostra in queste ore si fa delle belle risate. La risposta a questa corbelleria è nelle parole di Roberto Saviano (verrà additato anche lui, ora, come complice e connivente?):
“I domiciliari hanno destato scandalo, ma i magistrati hanno agito nel rispetto del diritto e quindi hanno realizzato l’atto antimafia più potente. Garantire la salute del detenuto, di qualunque detenuto, dall’ex boss al 41 bis al detenuto ignoto, è fondamentale, è un atto che ha una efficacia antimafia immediatamente misurabile, perché un carcere che non è democratico, diventa immediatamente un carcere dove comandano le mafie…”.
Anche Saviano verrà additato anche lui, ora, come complice e connivente? Si consiglia, come contravveleno, la rilettura (o la lettura) de “Il giorno della civetta” di Leonardo Sciascia. La pagina dove il capitano Bellodi respinge la tentazione di seguire le orme di Cesare Mori, al di là e al di sopra della legge, e raccomanda di combattere la mafia con le armi del diritto e della legge. Chiudiamola così, almeno per il momento. Il lettore di sicuro, si sarà abbondantemente rotto i “santissimi”; ma così è, (anche se non ci piace).