Una delle cose più strabilianti dell’inchiesta avviata in queste settimane dalla Camera dei Rappresentanti del Congresso americano e che potrebbe culminare con un’accusa formale nei confronti del presidente Trump, consiste nel fatto che, solitamente, questo tipo di indagini iniziano dal basso e procedono verso l’alto nel tentativo di stabilire eventuali responsabilità da parte di funzionari di rango più elevato: dal pesce piccolo a quello grande.
Nel caso dello scandalo ucraino invece, lo scrutinio è iniziato dal vertice: con Trump stesso a dichiarare apertamente le sue intenzioni di proporre al presidente ucraino un quid-pro-quo formulando le sue richieste nel corso di una telefonata ufficiale e di fronte ad una moltitudine di testimoni (“We would like you to do us a favor though”). Intenzioni ribadite da Rudy Giuliani in televisione durante un’intervista a Chris Cuomo ed ulteriormente confermate da Mick Mulvaney, Chief of Staff della Casa Bianca, illustrando per filo e per segno nel corso di una conferenza stampa, i dettagli della trattativa in tutta la sua monumentale inopportunità.
Inopportunità che lambisce e possibilmente sfocia nell’ambito dell’illegalità non tanto perché la Casa Bianca ha deciso di bloccare un pacchetto di aiuti militari all’Ucraina precedentemente approvato da una larga maggioranza formata da rappresentanti di entrambi i partiti ma perché il presidente eletto sulle ali dello slogan “America first!” per la seconda volta nel giro di tre anni è parso perfettamente a suo agio nel mettere le sorti di un’elezione americana nelle mani di uno stato straniero.
Con la sua richiesta di quid-pro-quo, Trump ha tentato di sabotare le prospettive elettorali di Joe Biden, che all’epoca sembrava essere il suo concorrente principale nelle prossime elezioni presidenziali del 2020 invitando ancora una volta uno stato estero ad influenzarne l’esito a suon di ricatti (“we would like you to do us a favor though”).
Nel corso della stessa telefonata col presidente ucraino e in aperta contraddizione con le conclusioni raggiunte da Robert Mueller e dai servizi di informazione americani inoltre, Trump, il cui patologico narcisismo non gli consente di desistere da questioni che mettono in discussione l’auto-esaltante percezione di se’ stesso, non ha esitato a farsi portavoce di una clamorosa bufala nata nelle cloache più oscure e recondite dell’Internet. Prontamente ripresa e sostenuta dai vari Devin Nunes, Jim Jordan e dagli altri esponenti della corrente “psichiatrica” del Partito Repubblicano presenti alle udienze, la panzana afferma che le interferenze mediatiche che hanno favorito Trump nella sua vittoriosa elezione del 2016 sarebbero state di origine ucraina piuttosto che russa, una tesi puntualmente sconfessata e ridicolizzata nel corso della stessa udienza dalla testimonianza di Fiona Hill che l’ha definita un prodotto della disinformazione russa.
La centralità di questa storia a dispetto della sua assurdità, mette in rilievo quello che forse costituisce l’aspetto più sconcertante di questa saga e che si può considerare il frutto dell’estrema polarizzazione politico-ideologica americana: l’annientamento di un terreno cognitivo comune basato su una percezione prevalente e condivisa della realtà.
La finzione spacciata per fatto; la propaganda presentata come giornalismo; la demonizzazione della stampa e dell’opposizione politica; l’arroccamento ideologico su posizioni politiche impervie all’evidenza dei fatti stanno provocando un disfacimento gravissimo del tessuto sociale americano. Un nichilismo distruttivo che rappresenta senz’altro un motivo di estrema soddisfazione per Putin e per tutti gli altri spacciatori di caos e fautori dell’autoritarismo tradizional-cleptocratico di stampo est-europeo.
Il fatto stesso che le prove più clamorose dei misfatti presidenziali siano state rese pubbliche proprio dai vari Trump, Giuliani e Mulvaney, mostra che siamo entrati in una nuova fase storica della dialettica politica americana e, possibilmente globale. Una fase in cui l’illegalità, il sopruso e l’illecito possono essere discussi senza alcuna remora etico-morale, alla luce del giorno. Una fase in cui l’evidenza dei fatti davanti agli occhi di tutti può essere negata o capovolta con la stessa disinvoltura con la quale un messaggio pubblicitario ci “informa” sulle irrinunciabili virtù del prodotto che tenta di spacciarci.
Finora, l’America ha dimostrato di essere dotata di un sistema immunitario di “anticorpi democratici” che, oltre che a renderla in una certa misura immune dalle derive autoritarie che hanno funestato in passato altre democrazie occidentali, le ha consentito di arrogarsi il diritto ad un vero o presunto “primato morale” sulla scena internazionale come custode dei valori fondamentali della convivenza democratica e dei diritti umani.
Ma questi pilastri democratici stanno cedendo sotto i colpi della normalizzazione dell’assurdo, della disinformazione, della guerra civile mediatica perpetrata da un Partito Repubblicano ormai radicalizzato oltre qualsiasi speranza di redenzione e ben disposto a sovvertire i parametri interpretativi della realtà, la sua stessa impalcatura semantico-cognitiva pur di avanzare i propri obiettivi ideologici. Nel lungo periodo, il danno al tessuto sociale e culturale della nazione sarà incalcolabile.
Per questo motivo, l’esito del processo di impeachment e, ancora di più, quello delle elezioni presidenziali del 2020 rappresentano un momento di svolta che determinerà non solo l’assetto politico degli Stati Uniti per i prossimi anni ma anche le possibilità di sopravvivenza, nel lungo termine, del futuro democratico dell’America e dell’Occidente.