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Democratici al bivio: ai dibattiti di Detroit lo scontro è tra prudenza e “big ideas”

A spiccare nel secondo round è stata la linea di faglia tra progressisti e moderati, tra chi "pensa in grande" e chi crede che idee radicali favoriranno Trump

Giulia PozzibyGiulia Pozzi
Democratici al bivio: ai dibattiti di Detroit lo scontro è tra prudenza e “big ideas”

Bernie Sanders ed Elizabeth Warren.

Time: 4 mins read

“I don’t know why anyone goes to the trouble to run for president to talk about what we can’t do and what we won’t fight for”: “Non capisco perché qualcuno si prende la briga di correre per la presidenza per poi parlare di quello che non possiamo fare e di ciò per cui non combatteremo”. Queste parole, pronunciate dalla candidata democratica progressista Elizabeth Warren, sarebbero pressoché sufficienti a intepretare il secondo round di dibattiti, in due serate, tra i tanti volti dem che si contendono l’Ufficio Ovale. Il primo round aveva più che altro messo in evidenza singole personalità: a giugno, oltre a Elizabeth Warren, aveva giganteggiato la californiana Kamala Harris, ma avevano sorpreso anche candidati meno noti come Cory Booker, Julian Castro, Tulsi Gabbard; del socialista Sanders, invece, sembrava essersi imposta più l’agenda progressista – abbracciata da tanti candidati, pur con diverse sfumature –, piuttosto che il carisma, che aveva lasciato un po’ a desiderare. Questa volta, invece, il dibattito si è tradotto in un’autentica arena politica, che ha fatto risaltare, più che singole personalità, la linea di faglia che percorre il Partito democratico e che deciderà il suo futuro e quello del Paese.

Sen. Warren: “I don’t understand why anybody goes to all the trouble of running for President of the United States just to talk about what we really can’t do and shouldn’t fight for…I’m ready to get in this fight. I’m ready to win this fight.” https://t.co/lrVE7B6VCO #DemDebate pic.twitter.com/n8kwp3VjpA

— CNN (@CNN) July 31, 2019

Quella linea l’ha tracciata proprio Warren, con l’acuta osservazione di cui sopra che ha strappato gli applausi della platea, ma l’ha rimarcata anche Sanders, quando ha avvertito: “I get a little bit tired of Democrats afraid of big ideas”, “Mi sto abbastanza stancando dei democratici che hanno paura di pensare in grande”. Mai come a Detroit, in effetti, sono risaltate le due facce del Partito, quella progressista e quella moderata, quella liberale e quella più conservatrice, quella “che pensa in grande” e quella attenta a ribadire “quello che non possiamo fare e ciò per cui non combatteremo”. La prima, più radicale; la seconda, più prudente. Di base, non si può negare che i dem siano comunque stati costretti a spostarsi più a sinistra, grazie – primariamente – agli scossoni inflitti da Sanders e dal nuovo movimento da lui lanciato a partire dal 2016. Eppure, la linea di demarcazione resta evidente, e si traduce, ad esempio, in visioni diverse su come arrivare al tanto agognato “Medicare for All”, con i più progressisti che vogliono eliminare qualsiasi forma di assicurazione privata, e i più moderati che vogliono mantenere la scelta; o ancora, parlando di immigrazione, c’è chi intende depenalizzare quella illegale – che resterebbe un’offesa civile –, sostenendo che la legge che la rende un crimine è la causa primaria della separazione delle famiglie al confine, e chi, invece, non intende farlo. Per fare qualche nome, se ad un estremo giganteggiano Bernie Sanders e Elizabeth Warren, all’altro si erge come estremo baluardo difensore dell’eredità obamiana l’ex vicepresidente Joe Biden.

La battaglia, si badi bene, è di forma e di sostanza. In gioco, c’è indubbiamente l’identità di un partito uscito distrutto dal 2016, ma anche il futuro degli Stati Uniti d’America. E le due “squadre”, se così si possono chiamare, si stanno sfidando in vista di un obiettivo comune, da non sottovalutare: battere Donald Trump. Ha più probabilità di sconfiggerlo chi ha il coraggio di pensare in grande, di fare promesse enormi (per qualcuno difficilmente realizzabili) e non ha paura di dichiarare guerra ai ricchi e ricchissimi (anche quelli del proprio partito), oppure qualcuno che, più prudentemente, propone cambiamenti moderati che non rivoluzionerebbero lo status quo? Sul piano della comunicazione, ieri sera abbiamo visto un Joe Biden aggredito da più parti, traballante ma non come nel round precedente, abbarbicato al verbo obamiano che pure – è bene ricordarlo – è uscito evidentemente sconfitto dalle ultime elezioni. L’ex Vicepresidente che tentava di difendersi dagli strali degli avversari sembrava la metafora perfetta del passato che prova a resistere al futuro, al cambiamento, alla “fiumana del progresso”, per dirla alla Verga. Ma attenzione: dalla sua, Biden rivendica orgogliosamente il più alto tasso di eleggibilità contro Donald Trump, che ha fin da subito impostato la sua campagna elettorale come una battaglia contro il “socialismo”, tabù per eccellenza della politica americana.

La domanda, dunque, resta: l’America è pronta per una proposta più progressista, oppure no? L’ex deputato del Maryland John Delaney, tra i “moderati” in campo, è convinto di no: “Possiamo seguire la strada indicata dal senatore Sanders e dalla senatrice Warren”, ha affermato, “che si traduce in cattive politiche come Medicare for All, ‘tutto gratis’, e promesse impossibili da mantenere”. Ma questo, ha proseguito, “finirà per alienare gli elettori indipendenti e farà rieleggere Trump. È quello che è successo con McGovern, con Mondale, con Dukakis”, ha concluso. Un’altra candidata, la senatrice del Minnesota Amy Klobuchar, ha sottolineato come, per vincere, i democratici debbano recuperare voti dei repubblicani moderati. Dall’altra parte, Warren – forse la più efficace tra tutti i candidati nelle due serate – ha fornito una risposta diversa: “Lo capisco: la posta in gioco è alta e la gente è spaventata. Ma non possiamo scegliere un candidato nel quale non crediamo solo perché siamo troppo spaventati per prendere qualunque altra decisione”.

Ecco il conflitto di identità, che pertiene all’essenza stessa del Partito democratico moderno, e che è forse condiviso dalla sinistra di tutto il mondo. Ciascuna delle due strade presenta dei pro e dei contro: la storia passata sembrerebbe dare ragione ai moderati che chiedono di seguire il tracciato più sicuro; ma a favore dei progressisti depone la sconfitta della Clinton nel 2016, e l’entusiasmo delle giovani generazioni, rinvigorite dall’agenda coraggiosa di candidati come Sanders, Warren, Castro o Yang. Ma c’è anche chi pensa che la scelta ideologica non sia tutto. Secondo Pete Buttigieg, giovane e carismatico sindaco di South Bend (Indiana) che sarà bene tenere d’occhio in ogni caso, sarà la chiarezza della proposta politica e la forza della leadership a poter favorire i democratici. “È tempo di smetterla di pensare a cosa diranno i repubblicani”, ha affermato. “È vero che se abbracciamo un’agenda di sinistra, diranno che siamo un mucchio di socialisti pazzi. Ma se optiamo per un’agenda più conservatrice, sapete cosa diranno? Diranno comunque che siamo un branco di socialisti pazzi. Spendiamoci semplicemente per le politiche più giuste, e mettiamoci la faccia per difenderle”.

 

 

 

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Giulia Pozzi

Giulia Pozzi

Classe 1989, lombarda, dopo la laurea magistrale in Filologia Moderna all'Università Cattolica di Milano si è specializzata alla Scuola di Giornalismo Lelio Basso di Roma e ha conseguito un master in Comunicazione e Media nelle Relazioni Internazionali presso la Società Italiana per l'Organizzazione Internazionale (SIOI). Ha lavorato come giornalista a Roma occupandosi di politica e affari esteri. Per la Voce di New York, è stata corrispondente dalle Nazioni Unite a New York. Collabora anche con "7-Corriere della Sera", "L'Espresso", "Linkiesta.it". Considera la grande letteratura di ogni tempo il "rumore di fondo" di calviniana memoria, e la lente attraverso cui osservare la realtà.

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