Giovedì 25 luglio, secondo costituzione, il presidente del governo spagnolo in funzione, Pedro Sánchez segretario generale del Partido Socialista Obrero, Psoe il più votato alle elezioni politiche di primavera, si è presentato al Congresso dei deputati di Madrid per la cerimonia di investitura formale. Non avendo ricevuto la maggioranza necessaria alla fiducia, resta in carica per i 60 giorni previsti dalla Carta, durante i quali farà il possibile per rafforzarsi attraverso qualche alleanza che gli consenta i numeri necessari a durare. Se non riesce, verso fine settembre rassegnerà le dimissioni nelle mani del re. In quel caso, ad oggi probabile, la Spagna affronterà le quarte elezioni anticipate in quattro anni, il che dà il senso sia della crisi di rappresentanza della politica spagnola sia, più in generale, del rischio al quale sono sottoposte, nel tempo dei populismi, le democrazie parlamentari a sistema elettorale proporzionale.
Le due questioni, quella interna e quella internazionale, sono strettamente intrecciate.
Nella cultura politica del populismo, i parlamenti sono orpelli inutili, costosi e persino dannosi, in quanto ostacolano il rapporto diretto tra “popolo” e “capo”. Il populismo tende all’eliminazione di ogni intermediazione (partiti, sindacati, media, e così via) che possa frapporsi alla corrente carismatica del capo, che deve giungere integra e intonsa alle masse adoranti e solidali. Il caso venezuelano, nella contrapposizione tra Guaidó e Maduro, documenta quanto l’esistenza di un parlamento possa danneggiare la tendenza a spadroneggiare del capo populista. Negli Stati Uniti il rimpallo quotidiano del processo decisionale, tra House of Representatives e il populista Trump fornisce un altro ottimo esempio di dove la negazione ontologica del parlamentarismo da parte del populismo possa condurre le istituzioni democratiche.
Se nei sistemi presidenziali la vena populista si esprime soprattutto nell’elezione diretta del Commander in Chief, nei sistemi parlamentari come quello spagnolo, trova modo di condizionare la stabilià della vita politica, producendo frantumazioni e smottamenti nelle forze tradizionali e facendo sorgere, a destra come a sinistra, nuovi movimenti e partiti per lo più fondati sulla protesta o su pochi forti risentimenti contro chi dirige e amministra la cosa pubblica. Le parole d’ordine consuete nelle agitazioni promosse dai populisti, riguardano il contrasto a corruzione diseguaglianze sociali insicurezza cittadina, la protezione dell’ambiente, l’indirizzo dei flussi di immigrati e rifugiati. Sono buone cause alle quali nessuno, in linea di principio, si oppone e che, per questo, fanno raccogliere consensi ai populisti che le propugnano. I limiti intrinseci del populismo non stanno mai dal lato della domanda, ma da quello dell’offerta: non sono sbagliate le rivendicazioni, ma il modo con il quale ad esse si dà soluzione una volta al governo. Il caso italiano è, a questo proposito, illuminante, con due populismi (uno presumibilmente di destra, l’altro presumibilmente di sinistra) conflittuali che, in attesa di capire cosa vorranno fare da grandi, bisticciano su tutto e lesionano ulteriormente una finanza pubblica strutturalmente problematica da almeno tre decenni.
Anche nel caso spagnolo, due sono i populismi maggiori in campo, generati dalla perdita di consenso, negli ultimi quindici anni, dei partiti che, dopo la lunga e drammatica parentesi golpista di Francisco Franco, hanno ricostruito la democrazia spagnola: il partido Popular conservatore, Pp, e il citato Psoe progressista, garanti per un quarantennio della stabilità del sistema parlamentare bipolare fondata sull’applicazione del metodo elettorale d’Hondt.
Sul lato destro dello schieramento politico si esprime Ciudadanos-Partido de la Ciudadanía, formazione di ambito liberale nata nel 2006 e presieduta da Albert Rivera, catalano. Alle recenti elezioni ha avuto un ottimo risultato: terza forza, e 57 seggi al Congreso de los Diputados cominciando ad erodere la certezza di egemonia sullo schieramento conservatore del Pp.
Sul lato sinistro Podemos, nato nel 2014, o meglio la coalizione Unidas Podemos Up stipulata con Izquierda Unida ed Equo, solo quarta con 42 seggi alle elezioni del 2019.
Il segretario generale di Podemos, Pablo Iglesias, è stato, secondo il primo ministro Pedro Sánchez, il principale ostacolo alla formazione dell’ipotizzato governo di sinistra Psoe-Up, avendo rivendicato, in termini quantitativi e qualitativi, ministri del tutto fuori dalla logica dei voti ottenuti alle elezioni. Pessimo negoziatore né realista né ragionevole, è stato il giudizio più generoso ricevuto da Iglesias nello schieramento socialista.
Nello scontro tra i due giovani leader ha fatto la sua figura la questione riguardante l’incarico di ministro del Lavoro. Rievocando un linguaggio purtroppo d’altri tempi per chi si ciba della presente politica all’italiana, Sánchez e i suoi hanno tenuto a mostrarsi in pubblico scandalizzati dalla pretesa di Podemos di sottrarre ai socialisti il dicastero del Lavoro: “Mai un governo socialista, che peraltro dispone del triplo dei vostri seggi, vi consegnerà le politiche del lavoro”. Anche sull’altra questione che per il Psoe costituisce con il lavoro la priorità del costituendo governo, la “transizione ecologica” i socialisti hanno fatto e faranno muro.
Seppure Iglesias si mettesse da parte (ha fatto sapere di non aver problemi a scansarsi, se è lui lo scoglio da superare), resterebbero un paio di problemi da risolvere perché gli spagnoli dispongano di un governo stabile.
La somma dei voti Psoe-Up non sarebbe sufficiente a formare la necessaria maggioranza parlamentare e quindi servirebbe cercare qualche aiutino esterno o addirittura imbarcare un partito minore centrista, il che finirebbe sicuramente per inquinare la “purezza” di sinistra del governo. Va a capire a quel punto come reagirebbe la base di Up!
La questione catalana potrebbe dinamitare il governo alla prima occasione: Iglesias è vicino agli indipendentisti e favorevole al referendum sul distacco dalla Spagna, che invece il Psoe riconosce incostituzionale. Catalogna è stato il convitato di pietra nell’infruttuosa trattativa Psoe- Up, inutile nasconderlo. Per questo in tanti ritengono che Pedro Sánchez si auguri di riuscire, nei 55 giorni rimastigli per la formazione di un governo, a far salire sul carro i liberali di Ciudadanos: il loro presidente, il catalano Albert Rivera, potrebbe coprirlo costituzionalmente e proteggerlo dall’onda d’urto indipendentista che il Pp, dall’opposizione, tenterà di scatenargli contro. Sanchez deve prevedere come frantumare sul nascere lo tsunami che inevitabilmente travolgerebbe il suo governo laddove si mostrasse accomodante verso l’indipendentismo.
Come si vede la politica, in Spagna come ovunque, alla fine rivendica le sue ragioni di fronte alle semplificazioni del populismo. Non ci sono scorciatoie quando sono in ballo i problemi esistenziali degli stati costituzionali e le questioni chiave della società come le politiche dell’occupazione e del sostegno al reddito da lavoro. Il che spiega, tra l’altro, perché nonostante le polemiche, giovedì Podemos si sia solo astenuto sul programma presentato da Sánchez.
Che le scorciatoie non siano praticabili, lo rilevano anche gli imprenditori spagnoli nelle dichiarazioni di questi giorni. La prima considerazione, la più ovvia ma insieme la più preoccupante, è che la politica nazionale si ritrova bloccata dalle elezioni generali del 2015, né offre, al presente, un progetto di ripresa. Inerzia e inazione della politica sono due rischi per l’economia, e questa chiede che vengano rimosse al più presto. Se le cose dovessero andare come moltissimi imprenditori prevedono, verrebbe in particolare a difettare il meccanismo istituzionale per l’approvazione del bilancio di previsione 2020 e per la messa a punto del dibattito sulle nuove modalità di finanziamento delle autonomie. Sarebbe una vera iattura.
Deloitte, nel “Barometro delle Imprese”, inchiesta semestrale condotta presso 262 società dal fatturato di 1 miliardo di euro e più di 1 milione di occupati, ha rilevato, poco prima del voto di investitura di giovedì, che solo il 14% degli intervistati ritiene che l’attuale conformazione del parlamento sia positiva per il sistema economico, percentuale che si riduce alla metà, il 7% in quanto a positività per il proprio settore e addirittura al 4% in quanto a positività per la propria impresa. L’incertezza è il dato dominante, e non sorprende.
Tuttavia le imprese (capita lo stesso in Italia) hanno appreso a tirare avanti nonostante i limiti della politica. Sempre attraverso Deloitte si apprende che il 53% degli intervistati ha incrementato la produzione, rispetto al 51% della seconda metà del 2018. Meglio di tutti costruzioni e servizi (hotel e turismo in particolare), ma anche l’energia ha fatto la sua parte. Cresce o si mantiene l’occupazione, piaga strutturale del sistema socio-produttivo ispanico, avendo il 44% degli intervistati proceduto a nuove assunzioni nel semestre. Per il 58% è salita la redditività degli investimenti, 12 punti sopra le attese espresse nel sondaggio precedente. Conseguentemente, sei società su dieci hanno accresciuto gli investimenti, un dato che proietta la fase positiva verso il futuro, almeno quello prossimo.
A sostenere la tendenza l’ampliamento del mercato interno e del portafoglio prodotti e servizi delle imprese. Il tutto mentre si alzano produttività e fatturato e si contengono i costi. Altro elemento che la dice lunga su come l’economia possa distanziarsi dalla politica, il fatto che, instabilità o meno, gli investitori esteri continuano a dare fiducia alla Spagna (e continuano a non darla all’Italia, tanto per non fare paragoni): tra l’altro, il paese iberico sta entrando nel gruppo dei favoriti dalle multinazionali che abbandonano la Gran Bretagna di Brexit.
Conferma le constatazioni positive, la revisione al rialzo del Pnl spagnolo del 2019 che Fondo Monetario Internazionale e Banco Bilbao Vizcaya Argentaria hanno appena pubblicato: si sale al 2,3%, il doppio del tasso previsto per la crescita nell’intera area dell’euro. Il dato è particolarmente significativo se si pone mente, al di là della congiuntura politica spagnola, alle correnti incertezze sull’andamento dell’economica globale, anche come effetto delle tensioni sui dazi e il commercio internazionale scatenate dall’offensiva statunitense negli scorsi mesi.