Durante una mia recente visita in Italia che ha coinciso con le ultime elezioni europee, un amico che è anche un attivista sociale, ha commentato mestamente l’affermazione della Lega nelle consultazioni elettorali dicendo: “Finquando i barconi carichi di immigrati illegali continueranno ad attraversare il Canale di Sicilia e a riversarsi sulle nostre spiagge, la Lega non perderà mai il consenso elettorale che è riuscita a costruirsi, persino in quel Sud che ha tanto pubblicamente disprezzato in passato” a conferma del vecchio adagio che si è sempre “terroni” di qualcun altro.
I paralleli tra Donald Trump in America e Matteo Salvini in Italia non hanno bisogno di essere spiegati a nessuno, tante sono le similitudini che esistono lungo l’asse transatlantico della demagogia dei beceri.
Basti pensare che persino lo slogan salviniano “Prima gli Italiani”, è ovviamente scopiazzato dalla retorica trumpiana (America First) forse perché la capacità di immaginazione della leadership leghista è talmente carente che proprio non ce l’hanno fatta a venir fuori con qualcosa di più nuovo ed originale.
O forse invece le coincidenze retoriche sono intenzionali perché cercano di manifestare, per la prima volta, una comunanza di intenti più profonda di quella semplicemente basata sulla condivisa antipatia per l’immigrazione.
Dico per la prima volta perché, tradizionalmente, le ideologie di destra si sono sempre manifestate in forme diverse sulle due sponde dell’Atlantico.
In America il conservativismo è corporativista in quanto tende a fare gli interessi delle elìtes economiche e finanziarie facendo leva, tra le altre cose, su politiche fiscali che, riducendo la pressione tributaria sulle classi più agiate, favorisce la concentrazione di capitali nelle mani della minoranza ricca del paese e priva le classi medie e medio-basse di importanti programmi sociali di pubblica utilità.
In Europa invece, i movimenti conservatori hanno mantenuto per lo più un’identità statalista che riconosce cioè alla sfera pubblica un ruolo esteso ed interventista nelle dinamiche sociali, politiche ed economiche. In un certo senso quindi, le tendenze della destra europea sono sempre state più autenticamente populiste rispetto a quelle d’oltreoceano.
Questa differenza tuttavia potrebbe essere ridimensionata dal vento di cambiamento che sta attraversando l’Occidente.
Uno dei principali motivi di scontro tra il vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini e l’Unione Europea al momento verte sull’intenzione del leader leghista di introdurre in Italia la flat-tax: un sistema di prelievo fiscale basato su un’aliquota fissa che applicherebbe la stessa percentuale di imposta a tutti, a prescindere dall’entità del reddito.
La flat-tax ha due caratteristiche principali: in primo luogo è profondamente regressiva e quindi intrinsecamente iniqua perché imporrebbe ad un capitano di industria con un reddito di centinaia di migliaia di euro, la stessa percentuale d’imposta di quella pagata da un suo operaio con un reddito di un decimo rispetto al suo capo.
Il secondo problema è costituito dal fatto che l’adozione della flat-tax, al netto, diminuirebbe drasticamente il gettito fiscale privando le casse pubbliche di fondi necessari per quegli stessi programmi di utilità sociale che favoriscono i ceti medio-bassi.
Che gli italiani siano tartassati è verissimo ma se l’intento della riforma fosse veramente quello di diminuire la pressione fiscale su imprese e famiglie perché non limitarsi semplicemente a ridurre le aliquote? Che bisogno c’è di un cambiamento strutturale come la flat-tax?
Secondo Salvini e la Lega, un sistema più semplice ed omogeneo come questo contribuirebbe a limitare la dilagante evasione fiscale che affligge l’Italia perché imposte più basse per tutti ridurrebbero anche gli incentivi ad evadere le tasse. Paradossalmente quindi, secondo la Lega, un sistema di prelievo tributario che riduce al netto le entrate, finirebbe invece per aumentare il gettito fiscale.
Dove l’abbiamo sentita, noi italiani residenti in America, una storia simile?
Da anni, il Partito Repubblicano americano, spalleggiato dai think-tank conservatori, continua a spacciare la teoria che tagliare la tasse finisce, nel lungo termine, con l’aumentare le entrate fiscali perché, lasciando più capitali nelle mani delle “classi produttive” (quelli che in America chiamano “job creators” ma che in realtà è solo un’altra etichetta per definire i “ricchi”) si incoraggiano questi ultimi ad aumentare gli investimenti, a creare posti di lavoro e ad espandere, in questo modo, l’attività economica tassabile (Trickle Down Economics).
Ogni tentativo di dimostrare con fatti e statistiche che questa teoria era e rimane una baggianata, si è dimostrata inutile perché i repubblicani continuano a spacciarla per vera e gli americani continuano a cascarci in barba al fatto che tutti i cambiamenti reali delle aliquote fiscali degli ultimi quarant’anni (i tagli di Reagan, Bush e Trump e gli aumenti di Carter, Clinton e Obama) hanno dimostrato esattamente il contrario.
Questa convergenza di intenti politici in materia fiscale tra Salvini in Italia e Trump negli USA, stimola tutta una serie di domande.
Che cosa hanno in comune queste strategie sulle due sponde dell’Atlantico? Prima di tutto, direi, l’intenzione di fare gli interessi delle classi ricche ed imprenditoriali. Ma questo è un obiettivo ideologico comune a quasi tutti i movimenti di destra quindi, sotto questo punto di vista, niente di particolarmente nuovo o sorprendente.
Quello che potrebbe essere una novità invece sono i metodi per realizzare questo obiettivo.
E’ possibile che Salvini abbia scopiazzato più di uno slogan elettorale dal movimento trumpiano americano e, in particolare, che il leader leghista, con il tutoraggio dell’amico Steve Bannon, nuovo padrino statunitense del populismo europeo, stia iniziando ad utilizzare metodi americani per attuare una trasformazione delle strutture pubbliche italiane paragonabile a quella “distruzione dello stato amministrativo” che lo stesso Bannon ha auspicato all’inizio dell’amministrazione Trump.
Se cosi fosse, il primo passo per realizzare questo obiettivo sarebbe proprio quello prediletto dalla destra conservatrice americana e che negli USA chiamano “Starving the Beast”: una trasformazione strutturale della politica fiscale in grado di ottenere due risultati cari alla Lega: lasciare più soldi nelle tasche dei ricchi e delle imprese (localizzate per lo più nell’Italia settentrionale) assicurandosi in questo modo il sostegno politico della porzione più potente e influente della società e privare lo stato dei fondi necessari per finanziare programmi sociali che favoriscono il “Mezzogiorno assistenzialista”.
Di fronte ad un possibile tumulto popolare in risposta a questi tagli infine, una strategia di questo genere avrebbe il vantaggio aggiuntivo di poterne scaricare sull’Europa la responsabilità politica.
Una delle condizioni di appartenenza all’Unione Europea infatti, è l’impegno da parte dei paesi membri a non sforare il limite del 3% di debito pubblico. Un risultato che si ottiene aumentando le tasse o tagliando la spesa pubblica. L’adozione della flat-tax leghista causerebbe quasi certamente uno sforamento di questo limite e, presumibilmente, quando messa di fronte agli scompensi finanziari italiani, l’Europa chiederà il rispetto degli impegni finanziari, Salvini, dopo averne distrutto la copertura economica, potrà, ipocritamente attuare questi tagli alla spesa col pretesto che è Bruxelles che lo costringe a farlo.
E’ come se il padrone di una fabbrica, per risparmiare soldi sui costi di manutenzione, eliminasse intenzionalmente tutti i dispositivi antincendio dal suo stabilimento e, quando i vigili del fuoco gli chiudono l’attività per motivi di sicurezza, scaricasse su questi ultimi la colpa di aver dovuto licenziare tutti i suoi dipendenti.