1 – Lo sgambetto di Kamala allo zoppicante Joe
Lo hanno evidenziato tutti: Joe Biden, già vicepresidente di Obama e incoronato frontrunner dai sondaggi, non ne è uscito bene. La prima sera non è stato nemmeno nominato dai suoi rivali; la seconda, è stato travolto dall’“uragano Kamala Harris” sulla questione razziale, e accusato di essersi opposto, negli anni ’70, ai pulmini “misti” per favorire l’integrazione dei bimbi bianchi e di quelli di colore nelle scuole. Inutile dirlo, il suo tentativo di difesa, e la controaccusa alla Harris di aver rappresentato in maniera non corretta la propria posizione, non gli sono valsi a molto. Non solo: il 76enne Biden ha anche ricevuto uno strale piuttosto appuntito da Swalwel, che gli ha ricordato dichiarazioni di 30 anni prima sulla necessità di “passare il testimone” alle nuove generazioni(frecciatina in cui, peraltro, anche Sanders si è sentito chiamato in causa). In generale, l’ex Vicepresidente è apparso sottotono, non a proprio agio nel ritmo trascinante del dibattito, troppo moderato in un campo che ormai è decisamente progressista e scomodamente abbarbicato all’eredità obamiana, che pure si è già ampiamente dimostrata inadeguata a fermare l’avanzata di Trump, e che il suo successore si è impegnato a smantellare pezzo per pezzo. Si riprenderà? Quel che è certo è che sul suo scivolone è spiccata la californiana Kamala, che con il suo “I would like to speak on the issue of race” (“Vorrei parlare della questione razziale”) si è dimostrata forse la candidata più credibile in tema di diversità (al netto di chi l’ha accusata, e non a torto, di non essere stata così progressista quando fu procuratore generale della California).
2 – Di Sanders vince l’agenda, ma lui…
Bernie Sanders? Sottotono anche lui. Al senatore del Vermont va riconosciuta una, indiscutibile, vittoria. Le sue idee, all’interno del partito, hanno vinto. Oggi, quasi tutti i candidati stanno portando avanti un’agenda che fino a 4 anni fa era derisa o ripudiata in massa; Medicare for All non è più una parolaccia, ma un mantra e un obiettivo per tutti, anche se sono diversi i percorsi, più o meno diretti, individuati per arrivarci; le sue proposte di cancellare o ridurre il debito studentesco e di rendere l’istruzione economicamente accessibile a tutti, seppure nelle diverse sfumature e interpretazioni, sono temi da cui il partito non può più prescindere. Ma sarebbe sbagliato non rilevare che l’etichetta di “socialista” (seppure accompagnata dall’aggettivo “democratico”), se non suscita scalpore tra le giovani generazioni meno legate alle vecchie ideologie, viene letta ancora negativamente da una parte importante del partito e del Paese. E, tra le altre cose, ben si presta alle abili strumentalizzazioni di Trump, come il candidato John Hickenlooper gli ha ricordato ieri. Anche Sanders è apparso poco a suo agio nell’arena di ieri, decisamente meno di quanto non fosse apparso nei suoi comizi; ha ripetuto più e più volte il suo mantra dell’1% di ricchissimi che possiede quanto il restante 90% della popolazione (suo manifesto programmatico assorbito dagli altri candidati), e lo ha fatto anche quando è stato interrogato sulla questione della diversità. Intendiamoci: il tema dell’uguaglianza in termini di “race” è sicuramente legato a quello delle disuguaglianze economiche, ma, soprattutto in un Paese come gli Stati Uniti, non può certo ridursi ad esso. Senza contare che l’argomento era stato il punto debole di Sanders nel 2016, tanto che, all’inizio di questa campagna, sembrava deciso a riscattarsi, ricordando il suo passato di attivista che marciò con Martin Luther King.
3 – Elizabeth Warren superstar
Forse incoraggiata dai sondaggi che la davano pronta al sorpasso di Bernie, buona performance per Elizabeth Warren durante la prima serata. La “Sanders in gonnella” (consentiteci la semplificazione) è apparsa più a suo agio del senatore del Vermont (con il quale non si è confrontata direttamente), più pragmatica (“I have a plan”, non a caso, è la sua parola d’ordine), più versatile, più sul pezzo. Protagonista nella prima parte della serata ma non nella seconda, fanno giustamente notare gli osservatori.
4 – Sorprendono e non deludono
Sicuramente da tenere d’occhio il trio Julian Castro-Cory Booker-Tulsi Gabbard, che, pure molto in basso nei sondaggi, nel dibattito se la sono cavata bene. Non è un caso che gli ultimi due siano stati i più “googlati” durante e dopo il primo round televisivo. Da seguire, anche il sindaco della piccola South Bend (Indiana) Pete Buttigieg, che ha dimostrato di avere le carte in regola per far parlare di sé ed è in qualche modo riuscito, almeno in parte, a non farsi schiacciare dal terremoto provocato dalla sparatoria in cui, nella sua cittadina, un ufficiale di polizia bianco ha ucciso un afroamericano.
5 – In Texas conquistava, in America…
Ingloriosa la performance di Beto O’Rourke. A novembre, l’agitatore delle folle democratiche in Texas era quasi riuscito a strappare al repubblicano Ted Cruz la poltrona di Governatore con una campagna elettorale che, in quello stato, non aveva avuto precedenti, tanto da guadagnarsi il titolo di “Obama bianco”. E invece, nemmeno la trovata di pronunciare qualche frase in spagnolo durante il dibattito è riuscita a rivitalizzare gli entusiasmi di un tempo. Incalzato da Castro sulla depenalizzazione dell’immigrazione illegale, la risposta di O’Rourke (“non criminalizzeremo chi cerca asilo”) è apparsa più che altro un tentativo di arrampicarsi sugli specchi, e anche mal riuscito.
6 – Che fatica De Blasio, ma sugli immigrati strappa l’applauso
Il sindaco di New York? Decisamente svantaggiato e anche isolato nel dibattito, De Blasio ha cercato di ritagliarsi qualche spazio, intervenendo più volte a gamba tesa nelle dichiarazioni dei colleghi. Collocatosi nell’ala più progressista del partito, De Blasio, è chiaro, non convince e non conquista. Unica nota positiva, quando, rivolgendosi agli spettatori, ha ricordato agli americani che non sono gli immigrati i veri responsabili dei problemi del Paese: “Non sono stati gli immigrati a farvi questo, sono state le grandi corporation. L’1% vi ha fatto questo!”. Chapeau: in Italia, è da tanto che non sentiamo dire una cosa del genere a un politico di sinistra.
7 – La differenza che farà la differenza
Che cosa farà la differenza, nei prossimi mesi? Sicuramente il carisma dei candidati, componente che non può e non deve mancare in una campagna elettorale, specialmente in vista della sfida con Trump. Certamente, in un campo affollatissimo ma in cui le posizioni tendono a compattarsi a sinistra, faranno la differenza le piccole diversità. Come sulla questione dell’Healthcare: alla soluzione più radicale che chiede l’abolizione in blocco dell’opzione privata a favore di un’unica pubblica (soluzione sostenuta, in primis, da Sanders, Warren, Harris, De Blasio, Gillibrand), si oppone invece la proposta più moderata di consentire la scelta tra l’opzione privata e quella pubblica (sostenuta dalla maggior parte dei candidati). Dettagli come questo faranno la differenza, soprattutto perché orienteranno chiaramente il voto delle varie componenti del partito – quella più moderata e tradizionalista e quella più progressista –. Faranno la differenza, anche, i giovani: perché, per battere Donald Trump, bisogna portare a votare le nuove generazioni. Allo stesso tempo, i giovani non bastano, se il candidato o la candidata verrà percepito/a come troppo divisivo/a dal partito. La sfida, insomma, è tutt’altro che scontata, e l’errore che, 2016 docet, i democratici dovranno evitare come la peste è quello di sottovalutare Donald Trump.