Tante polemiche hanno accompagnato l’approvazione del decreto Salvini su sicurezza e immigrazione, anche in relazione alle sue parti che introducono delle novità in merito all’acquisizione e alla revoca della cittadinanza italiana. La riforma, in particolare, richiede una conoscenza al livello B2 della lingua italiana per poterla ottenere, abroga il comma che prevedeva che il rigetto della richiesta poteva essere emesso solo entro due anni dalla presentazione della domanda, alza il costo della richiesta da 200 a 250 euro, raddoppia il termine di definizione dei procedimenti, da 24 a 48 mesi, e impone la revoca della cittadinanza in caso di reati di terrorismo ed eversione.
E tra gli elementi più contestati di questa riforma, oltre all’allungamento delle tempistiche delle procedure e all’aumento dei costi, c’è proprio il requisito della conoscenza della lingua italiana a livello B2, considerato proibitivo soprattutto per chi, sposando un cittadino o una cittadina italiana, vorrebbe acquisirla per matrimonio. Un provvedimento ritenuto svantaggioso soprattutto per gli italiani all’estero e i loro partner. Per questo motivo, la deputata Pd eletta in Nord America Francesca La Marca, insieme alla collega eletta in Europa Angela Schirò, ha presentato alcuni giorni fa un question time rivolto al ministro degli Esteri “per chiedere in via pregiudiziale la sospensione di questo iniquo provvedimento in vista di una più organica riforma della cittadinanza; in secondo luogo, per sciogliere una serie di quesiti relativi alle situazioni che all’improvviso sono cadute addosso agli interessati e, infine, per sollecitare una sistematica informazione sui luoghi, gli istituti e i tempi in cui l’attestazione di possesso dell’italiano possa essere ottenuta all’estero”. Con la deputata di Toronto abbiamo approfondito questa e le altre novità introdotte dalla legge, e le loro verosimili conseguenze.
Onorevole La Marca, quali sono gli effetti sugli italiani all’estero del requisito di conoscenza a livello B1 della lingua italiana per ottenere la cittadinanza?
“Sono certamente negative e, in qualche misura, anche lesive della dignità delle persone interessate. In realtà, per colpire gli stranieri che intendono unirsi in matrimonio con cittadine/i italiane/i per acquisire la cittadinanza si spara nel mucchio, senza rendersi conto che in prima linea ci sono gli italiani all’estero. Stiamo parlando di tante “coppie miste” che già esistono e che possono formarsi in conseguenza della grande diffusione della diaspora italiana nel mondo e della crescita costante dei nuovi flussi di emigrazione, soprattutto giovanili.
In realtà si tratta di una delle migliori esperienze di integrazione presenti nella nostra emigrazione e, invece, questo governo le tratta come fenomeni da contenere o addirittura da disincentivare. È non solo una cosa umanamente bella ma anche socialmente utile quella di constatare che due persone, nella costruzione del loro progetto di vita, vogliano condividere anche un elemento forte come la cittadinanza perché questo può aiutare a dare una precisa identità alla famiglia e a favorire la mobilità transnazionale, necessaria per conservare i legami con i luoghi e le famiglie di origine.
Si è preferito, invece, mettere sul cammino di queste persone un ostacolo molto alto, qual è la conoscenza dell’italiano a livello B1, vanificando – come nel caso dei tanti che hanno presentato la domanda nel periodo di transizione tra il decreto e l’entrata in vigore della legge – documentazioni già acquisite impiegando tempo e denaro e raffreddando i propositi di arrivare al traguardo sperato”.
La legge estende da 24 a 48 mesi i termini per la conclusione dei procedimenti della cittadinanza per matrimonio. Che ne pensa?
“Probabilmente, in questo caso, il governo ha raccolto la sollecitazione del funzionariato che opera soprattutto all’estero e che, in particolare in America Latina, è esposto alle denunce per inadempimento che scattano su istigazione di grandi studi professionali non appena scade il termine fissato per la trattazione delle pratiche. Ma anche in questo caso, si inverte la scala delle scelte e delle priorità.
I ritardi che si accumulano nella trattazione delle pratiche di cittadinanza, in realtà, dipendono dalla mancanza di personale negli uffici consolari e da poca efficienza amministrativa sia nei comuni italiani che negli stessi consolati.
Ancora una volta, invece, le conseguenze sono messe a carico dei cittadini. Io credo che, prima di aumentare la tassa per la richiesta di cittadinanza e di raddoppiare i tempi di durata della lavorazione delle pratiche, bisognerebbe dare concretamente la dimostrazione che vi sia un chiaro impegno nella riorganizzazione e nell’efficientamento dei servizi in modo che il cittadino, nel momento in cui deve sia chiamato a fare ulteriori sacrifici, abbia la certezza di avere qualche reale compensazione”.
Cosa pensa del fatto che la riforma abroghi la disposizione che preclude il ricorso sul rigetto dell’istanza di acquisizione della cittadinanza per matrimonio decorsi due anni dalla domanda?
“È un’altra delle espressioni autoritarie che solcano il decreto Salvini sulla cosiddetta Sicurezza. Come sulla questione toccata in precedenza, si evidenzia una mancanza sostanziale dello spirito di cittadinanza che dovrebbe consentire a chiunque abbia a che fare con lo Stato italiano di poter far valere i propri diritti, se suffragati da una legge. In questo caso, si usa il criterio “chi ha avuto, ha avuto…” e, ancora una volta, al cittadino viene consigliato di arrangiarsi. Il che, soprattutto all’estero, è una cosa quanto mai complicata, oltre che iniqua, e anche sostanzialmente imbarazzante se confrontata al trattamento di molti altri Paesi nei confronti dei loro cittadini, di nascita o acquisiti”.
Pensa che i nuovi “paletti” imposti avranno l’effetto di scoraggiare le richieste per ottenere la cittadinanza?
“Certamente avranno l’effetto di moltiplicare gli ostacoli e probabilmente anche quello di scoraggiare le richieste di cittadinanza. Per essere chiara, io credo che si voglia proprio questo da parte del governo in carica.
Vorrei, comunque, precisare che non considero una aberrazione richiedere, a chi fa istanza di cittadinanza, la conoscenza della lingua del paese di cui si intende essere cittadini.
La questione che questo provvedimento pone è sostanzialmente diversa. La conoscenza della lingua ad un così alto livello la si richiede al di fuori di una visione organica del tema della cittadinanza e solo per una categoria di persone. Del cosiddetto jus culturae, come è noto, si sta discutendo da qualche anno sia in connessione con la concessione della cittadinanza jure soli che con il riconoscimento della cittadinanza jure sanguinis. Bene, perché allora non porre la questione nell’ambito di una riflessione generale su ciò che la cittadinanza debba diventare in una situazione storica così diversa rispetto a quella del passato, quando furono concepite le norme sulla cittadinanza? Qualcuno sa dire perché per lo straniero che sposa un’italiana e che magari vede educare i proprio figli alla nostra lingua e alla nostra cultura è richiesto un esame, mentre a chi richiede la cittadinanza per discendenza dopo quattro o cinque generazioni non è richiesta alcuna verifica che possa consentire di accertare il possesso di una dote linguistica e culturale?”.
A suo avviso cosa bisognerebbe fare per avere un sistema di attribuzione della cittadinanza più equo e attento alle esigenze degli italiani nel mondo e delle loro famiglie?
“Le soluzioni sono già sul tappeto e tra esse mi permetto di ricordare anche le mie proposte di legge in merito, presentate sia nella scorsa che nell’attuale legislatura. Prima di tutto è urgente riconoscere anche sul piano amministrativo la facoltà di trasmettere la propria cittadinanza alla donna italiana che l’ha perduta senza sua colpa per un matrimonio con uno straniero. Questo per evitare le inaccettabili situazioni che si sono determinate in tante famiglie in cui un figlio nato dopo il 1948 è cittadino italiano mentre il fratello maggiore, nato prima, non può esserlo.
Si tratta poi di fare almeno un primo passo in direzione del riacquisto della cittadinanza da parte di chi è nato in Italia e l’ha perduta per ragioni di lavoro quando in tanti paesi di emigrazione non esisteva la possibilità di doppia cittadinanza.
Credo, inoltre, che non si possa più sfuggire al dovere morale di riconoscere la cittadinanza ai ragazzi nati in Italia, da genitori regolarmente residenti, e che abbiano compiuto un intero ciclo di formazione nel nostro Paese. Ripeto, poi, il concetto che ho espresso poco fa, che si dovrebbe aprire con serenità un tavolo di confronto che vada oltre la dialettica maggioranza-minoranza per poter definire quali requisiti di ordine linguistico e culturale siano necessari avere per ottenere oggi la cittadinanza italiana.
Intanto però, visto che la disposizione del decreto “sicurezza purtroppo c’è, l’amministrazione italiana senta quantomeno il dovere di fornire un quadro informativo preciso sugli istituti che nel mondo sono abilitati a rilasciare la certificazione, sui costi di tale operazione e sui tempi necessari per poterla conseguire. Proprio ciò che io e la mia collega Angela Schirò abbiamo richiesto in una interrogazione urgente rivolta ai Ministri dell’Interno e degli Esteri”.