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February 19, 2019
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Bernie Sanders 2020: il “socialista d’America” può farcela davvero?

È giunto l'atteso annuncio del senatore del Vermont che nel 2016 aveva perso contro Clinton. Cos'è cambiato da allora? Lui assicura: "Stavolta vinceremo"

Giulia PozzibyGiulia Pozzi
Bernie Sanders 2020: il “socialista d’America” può farcela davvero?

Bernie Sanders (Gage Skidmore / Flickr.com).

Time: 5 mins read

Per certi versi, Bernie Sanders ha già vinto. E i motivi per cui questa affermazione non è solo retorica li sintetizza in modo strategico il video in cui il senatore indipendente del Vermont ha annunciato la sua candidatura. Un video in cui vengono messi in evidenza tutti gli argomenti di dibattito che Sanders, da quando nel 2016 è stato battuto (secondo alcuni “sabotato”) dalla candidata dell’establishment democratico Hillary Clinton, è riuscito ad imporre vittoriosamente sul panorama politico americano. E le premesse – è giusto sottolinearlo – non erano le migliori: perché l’orgoglio socialista dell’anziano candidato stona macroscopicamente con la tradizione e la cultura a stelle e a strisce. Eppure, molti segnali indicano che qualcosa sta scambiando.

I’m running for president. I am asking you to join me today as part of an unprecedented and historic grassroots campaign that will begin with at least 1 million people from across the country. Say you’re in: https://t.co/KOTx0WZqRf pic.twitter.com/T1TLH0rm26

— Bernie Sanders (@BernieSanders) February 19, 2019

Tra i più evidenti, il fatto che proposte considerate “estreme” siano entrate legittimamente nel dibattito dell’area democratica del Paese. Nel 2017, Sanders ha illustrato il suo piano “Medicare for All”, co-patrocinato da altri 16 democratici, numero che, solo un anno prima, sarebbe stato impossibile da raggiungere. Nel frattempo, il tema è diventato uno dei principali punti della campagna di Alexandria Ocasio-Cortez, e, nelle elezioni di Midterm di novembre, era appoggiato dal candidato democratico alla Camera in almeno la metà delle competizioni più contese. La dice lunga anche il fatto che i 4 senatori democratici più in vista attualmente in corsa per la Presidenza – Kamala Harris (California), Elizabeth Warren (Massachusetts), Cory Booker (New Jersey) e Kirsten Gillibrand (New York) – avessero all’epoca co-sponsorizzato il piano proposto da Sanders.

Altro tema “sandersiano”, quello delle università pubbliche e gratuite, su cui ancora tanto c’è da fare, ma che è oggi una realtà in circa 20 stati. Per non parlare, poi, del cambiamento climatico, altro pezzo forte dell’agenda del senatore del Vermont, divenuto tale anche per molti competitors democratici. A esprimere il proprio sostegno per il Green New Deal, infatti, la senatrice del Minnesota Amy Klobuchar, Kamala Harris, Kirsten Gillibrand, Elizabeth Warren, Cory Booker, oltre al semisconosciuto Pete Buttigieg, sindaco di South Bend, Indiana.

Altre battaglie vinte da Sanders, il “bye bye New York” di Amazon– e qui è stato supportato dalla sua “discepola” newyorkese Ocasio-Cortez –; l’introduzione di una proposta di legge democratica per alzare il salario minimo, che pure, passata indenne alla Camera, sarà probabilmente stoppata dal Senato repubblicano; l’impegno preso da Amazon e non solo ad alzare, in effetti, il salario minimo dei dipendenti; la decisione del Comitato Nazionale Democratico di eliminare i superdelegati; lo storico voto del Senato per terminare la guerra in Yemen, obiettivo per cui il senatore del Vermont si era sempre battuto in prima linea.

Ma la più grande vittoria politica di Sanders, fino ad oggi, è stata quella di essere riuscito ad orientare in senso più progressista l’agenda del partito per cui si è candidato, quello stesso partito che, in effetti, nel 2016 ha fatto di tutto per impedirgli l’ascesa presidenziale. E non è un caso che Donald Trump abbia scelto di evocare lo spettro del “socialismo alla Maduro” per esorcizzare i suoi nemici democratici, non solo Sanders. Quest’ultimo, secondo il portavoce della campagna del Presidente, Kayleigh McEnany, avrebbe già vinto la competizione in campo dem visto che “tutti i candidati stanno abbracciando il suo marchio di socialismo”.

E se è vero che Sanders, in questi anni, ha certamente costretto il Partito Democratico a ripensare, almeno in parte, la propria agenda, quella dello staff di Trump è certamente un’esagerazione voluta. Ad ogni modo, resta da capire quanto una maggior disponibilità dei democratici a imbracciare un certo “populismo di sinistra” possa essere efficace nell’obiettivo primario di far perdere a Trump la Casa Bianca, e quante siano, in effetti, le chance di vittoria dello stesso Sanders.

Quanto al primo punto, se nessuno ha a disposizione una sfera di cristallo, è sempre utile osservare il dato passato: nelle scorse presidenziali, Hillary Clinton è stata percepita come candidata dell’establishment, di Wall Street, dei grandi interessi, e Donald Trump, che pure veniva dal mondo degli affari, ha giocato su tale contrapposizione riuscendo a farsi passare per l’”outsider”. Non si sa cosa ne sarebbe stato di Bernie Sanders; sappiamo però cosa ne è stato della sua rivale.

Quanto al secondo, le opinioni sull’argomento non sono concordi. Alcuni repubblicani (e anche alcuni democratici) sono convinti che una vittoria del senatore del Vermont alle primarie sarebbe il miglior presupposto per la rielezione di Donald Trump, che avrebbe gioco facile nell’insinuare nell’opinione pubblica l’equivalenza Sanders-Maduro. Dal canto suo, il candidato ha già risposto in proposito: “Bernie Sanders non vuole che gli USA siano in una situazione economica orribile che purtroppo esiste in Venezuela in questo periodo. Quello che Bernie Sanders vuole è imparare da Paesi in giro per il mondo che fanno meglio di noi in tema di diseguaglianze”. Alcuni media, poi, lo hanno definito “troppo vecchio, troppo bianco e troppo socialista” per poter diventare Presidente, argomentazioni che un recente pezzo di The Intercept ha provato a smontare; in molti hanno sottolineato che i sondaggi, per il momento, non lo premiano, mentre, secondo l’Economist, “i democratici dovranno decidere presto che Bernie Sanders è un vizio che non si possono permettere”. Un’analisi del Washington Post osserva inoltre giustamente che il candidato socialista dovrà essere più bravo del 2016 a ottenere i voti degli afroamericani, mentre la CNN ha elencato 5 ragioni (tra cui il fatto che il senatore non è un vero democratico, ma un indipendente) per essere scettici in merito alla sua discesa in campo. Eppure, a quattro ore dall’annuncio della sua candidatura, la sua campagna avrebbe già raccolto ben 1 milione di dollari. E a chi gli ha chiesto che cosa c’è di diverso rispetto all’ultima volta, ha risposto: “Questa volta vinceremo”. Quanto al significato da attribuire al termine “vittoria”, Sanders lo ha spiegato diffusamente nel capitolo finale del suo libro, Where We Go From Here: “La rivoluzione politica”, ha scritto, “vuol dire pensare in grande. Non riguarda una particolare elezione, un candidato, una questione. Significa creare un movimento capace di trasformare la vita economica, politica, sociale e ambientale di questo Paese”.

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Giulia Pozzi

Giulia Pozzi

Classe 1989, lombarda, dopo la laurea magistrale in Filologia Moderna all'Università Cattolica di Milano si è specializzata alla Scuola di Giornalismo Lelio Basso di Roma e ha conseguito un master in Comunicazione e Media nelle Relazioni Internazionali presso la Società Italiana per l'Organizzazione Internazionale (SIOI). Ha lavorato come giornalista a Roma occupandosi di politica e affari esteri. Per la Voce di New York, è stata corrispondente dalle Nazioni Unite a New York. Collabora anche con "7-Corriere della Sera", "L'Espresso", "Linkiesta.it". Considera la grande letteratura di ogni tempo il "rumore di fondo" di calviniana memoria, e la lente attraverso cui osservare la realtà.

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