Donald Trump, a parole, sembrerebbe disposto a proseguire lo shutdown “per mesi, persino anni” – dichiarazione che, a qualche lettore avveduto, potrebbe addirittura ricordare la stima approssimata a “pochi mesi, al massimo anni” del ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti italiano Danilo Toninelli a proposito del rilancio di Genova –. La realtà, però, è che, al Commander-in-Chief, la chiusura (parziale) del governo federale sta cominciando a far franare la terra sotto i piedi. La ragione è all’incirca la stessa per cui tanta ironia si è scatenata, nel Belpaese, sulla sfortunata dichiarazione di Toninelli: in quel caso, una cosa era che il capoluogo ligure si rialzasse dopo la tragedia del ponte Morandi in una manciata di mesi, tutt’altra cosa che ci volessero anni. Allo stesso modo, ciò che Trump e il suo staff non sembravano aver capito all’inizio è che un conto era che lo shutdown durasse pochi giorni, altro conto alcuni “mesi” e altro ancora addirittura “anni”.
In effetti, secondo il Washington Post – che ha interpellato ufficiali dell’amministrazione –, né il Presidente né il suo entourage si sarebbero pienamente resi conto degli effetti di una chiusura prolungata del governo, come il fatto che 38 milioni di americani avrebbero perso i propri buoni pasto, che migliaia di inquilini avrebbero dovuto affrontare sfratti senza l’assistenza del Dipartimento preposto (“Department of Housing and Urban Development”), o che addirittura il traffico aereo sarebbe stato a rischio.
Secondo l’autorevole quotidiano, gli ufficiali dell’amministrazione avrebbero cominciato a comprendere la portata degli effetti dello shutdown solo questa settimana, e sarebbero “ora concentrati” a capire “se c’è qualcosa che possano fare per intervenire”. È probabile, in questo senso, che Trump sia stato indotto in errore da un altro breve shutdown avvenuto a inizio 2018. In quell’occasione, gli effetti sono stati praticamente impercettibili perché la sospensione dei finanziamenti è durata solo qualche giorno. In questo caso, però, è ben diverso: perché se i budget delle agenzie governative sono elastici abbastanza per affrontare qualche giorno di stop, la relazione tra la durata dello shutdown e le sue conseguenze non è lineare: una chiusura di 30 giorni non ha un impatto di 10 volte più grave rispetto a una di 3 giorni, ma, si stima, di circa 100 volte.
Per ora, i dati e le stime parlano chiaro: se l’impasse durasse solo fino a febbraio, 140 miliardi di dollari in rimborsi di imposta sarebbero congelati, ritardati o a rischio; come già anticipato 38 milioni di americani perderebbero o vedrebbero fortemente ridotti i buoni pasto del Supplemental Nutrition Assistance Program del Dipartimento dell’Agricoltura; 800mila dipendenti federali continuerebbero a non percepire alcuno stipendio, con tutte le conseguenze – pubbliche e private – del caso. Per fare solo un esempio, i dipendenti della Amministrazione per la sicurezza dei trasporti non possono certo continuare indefinitamente a svolgere le proprie mansioni non pagati. Gli impiegati in alcuni aeroporti iniziano a scioperare: a un certo punto, il trasporto aereo si fermerà, e con esso un corrispondente ampio segmento dell’economia.
Cosa fare, dunque? A quanto pare, al momento non lo sa nemmeno Trump. Il Presidente ha detto al leader della minoranza del Senato Charles Schumer che sembrerebbe un pazzo se accettasse di riaprire il governo senza strappare concessioni. Dal canto loro, però, i democratici non avranno alcun interesse a cedere, perché sanno bene che la responsabilità dello shutdown ricade sul Commander-in-Chief. Una delle modalità per uscire dall’impasse sarebbe quella di trovare un accordo con i democratici su una riforma dell’immigrazione. In proposito, Jared Kushner starebbe cercando di barattare protezioni per i Dreamers in cambio di fondi per la sicurezza delle frontiere. Ma, si sa, una riforma del genere è difficile da portare a termine. Di certo più difficile che terminare lo shutdown.
Senza contare che il muro del Messico, secondo alcuni media, sarebbe una semplicistica ma efficace strategia di comunicazione più che un obiettivo reale delle politiche migratorie del Presidente. Anche i più conservatori ritengono in effetti l’esito della battaglia sul muro piuttosto irrilevante, e addirittura temono che, su questo altare, il Presidente sia disposto a sacrificare più importanti capitali politici. Per esempio la sua stessa credibilità, incaponendosi su uno shutdown che nuocerà a troppi, senza portare niente a lui.
Intanto, per martedì sera Trump ha annunciato un discorso alla nazione proprio sul problema dell’immigrazione: ma che cosa potrebbe dire adesso per uscire dal vicolo cieco in cui si è cacciato?