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January 2, 2019
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Una donna contro le élites: Elizabeth Warren scende in campo per il 2020

In molti la sovrappongono (erroneamente) a Bernie Sanders, che, pur compagno di molte battaglie, potrebbe invece correre contro di lei

Giulia PozzibyGiulia Pozzi
Time: 4 mins read

Che Elizabeth Warren stesse considerando di correre per la presidenza lo si era capito già qualche settimana prima dell’annuncio ufficiale, quando, a fine novembre, pubblicò su Foreign Affairs un saggio sulla sua idea di politica estera, una politica “For All”, per tutti, per dirla in estrema sintesi. Quindi, sul finire del tormentato 2018 – tramontato sullo shutdown dichiarato da Trump –, la democratica del Massachussetts ed ex professoressa di Legge ad Harvard ha creato un comitato presidenziale esplorativo, diventando nel giro di poche ore la prima potenziale contendente in campo democratico per il 2020.

Dopo di lei, per il prossimo 12 gennaio è attesa la discesa in campo dell’ex ministro dell’edilizia ed ex sindaco di San Antonio Julian Castro. Altro nome, quello del governatore dello stato di Washington Jay Inslee, con un focus particolare su clima e ambiente. Tra gli altri possibili sfidanti, Joe Biden, ex vicepresidente di Obama e negli ultimi mesi del 2018 in cima alle classifiche letterarie con Promise me, Dad, che pare aver confermato le speculazioni su una sua ipotetica candidatura dichiarando di ritenersi la “persona più qualificata nel Paese per diventare Presidente”; Bernie Sanders, senatore del Vermont reduce dai buoni risultati raggiunti dai propri candidati nelle Midterm, che già aveva chiarito la sua intenzione di scendere in campo nel caso in cui avesse pensato di essere il candidato migliore per spodestare Donald Trump; Beto O’Rourke, carismatico candidato democratico per il Senato in Texas, di frequente paragonato a John F. Kennedy e Barack Obama, sconfitto per un soffio da Ted Cruz a novembre; Mike Bloomberg, che di certo non ha bisogno di presentazioni.

Warren ha lanciato la sua campagna pubblicando un efficace video autobiografico con la funzione di manifesto programmatico, il cui messaggio chiave è: “America’s middle class is under attack”, “la classe media americana è sotto attacco”. Un video che per certi versi è paragonabile a quello che aveva lanciato la candidatura, alle primarie del 14esimo distretto congressuale di New York, di Alexandria Ocasio-Cortez, primarie che l’hanno catapultata, dopo l’attesa vittoria alle Midterm, direttamente al Congresso come la più giovane deputata della storia degli Stati Uniti. Non che il progressismo della Warren sia una novità o una giravolta politica estemporanea: in un fiero discorso tenuto nell’agosto 2017, in occasione dell’annuale conferenza Netroots Nation, Warren ripudiò il cosiddetto “Clintonismo”, al punto da guadagnarsi aspre critiche da parte dell’establishment del partito.

In effetti, per molti americani le idee di Warren e quelle di Sanders paiono in piena consonanza. Certo: la sinistra del partito la criticò aspramente, dopo le elezioni del 2016, per non aver appoggiato la candidatura del socialista del Vermont. Interrogata in proposito, Warren ha glissato, spiegando di essere stata orgogliosa del confronto tra i due contendenti dem, puntualizzando che, alla fine, se le cose fossero andate diversamente avrebbe pienamente combattuto per l’elezione di Sanders come in effetti ha fatto per l’ex First Lady.

Ad ogni modo, pare probabile che nel 2020 l’ex professoressa di Harvard e il senatore del Vermont siano destinati addirittura a sfidarsi. In effetti, non si può dire che i due, pur alleati politici di molte battaglie, propongano le stesse ricette. Entrambi focalizzano il proprio messaggio politico sulla lotta alle diseguaglianze economiche: ma l’una crede nei mercati, che vorrebbe riorganizzare a beneficio di lavoratori e consumatori; l’altro è socialista, e intende rivederli, sostanzialmente liberandoli del settore privato.

Il manifesto di Warren consiste nel riformare le regole che danno potere ai ricchi e alle élites a spese degli americani. Il suo Accountable Capitalism Act garantirebbe la rappresentanza dei lavoratori nei consigli di amministrazione e imporrebbe alle grandi corporation di considerare i lavoratori, i consumatori e tutte le comunità di interesse come veri e propri stakeholder in qualsiasi processo decisionale. Il suo approccio sul clima costringerebbe le aziende pubbliche a divulgare i rischi legati all’ambiente, fornendo agli investitori maggiori informazioni per poter mettere soldi su obiettivi sostenibili. E ancora, Warren si batte per finanziare alloggi a prezzi accessibili alle comunità che adottano politiche di zonizzazione, mentre il suo 21st Century Glass-Steagall Act teorizza la separazione strutturale delle banche commerciali da quelle di investimento. Quanto all’Anti-Corruption and Public Integrity Act, ridurrebbe il ruolo delle lobby di interesse speciale nel processo decisionale federale. I cavalli di battaglia di Sanders rimangono l’istruzione pubblica, la garanzia di lavoro federale, un totale ripensamento dei mercati che limiti quanto una compagnia possa crescere, o che addirittura istituisca al loro fianco altre opzioni finanziate con soldi pubblici, la nazionalizzazione del sistema sanitario.

Sulla politica estera, Warren sembra essere disposta a fare profonda autocritica sul ruolo che l’America ha ricoperto globalmente negli ultimi decenni. Nel suo saggio pubblicato su Foreign Affairs, si legge:

Dopo la Guerra Fredda, i politici statunitensi hanno iniziato a credere che, poiché la democrazia era sopravvissuta al comunismo, sarebbe stato semplice costruirla ovunque nel mondo. Hanno quindi cominciato ad esportare un particolare tipo di capitalismo, che comprendeva deboli regolamentazioni, tasse basse per i ricchi e politiche a favore delle multinazionali. E gli Stati Uniti hanno intrapreso una serie di guerre apparentemente senza fine, impegnandosi in conflitti con obiettivi errati o incerti e senza un percorso evidente verso il completamento.

Un’autocritica che investe anche la globalizzazione, che però, come per i mercati, a suo avviso va “fatta funzionare” più che cancellata in toto (“Un nuovo approccio dovrebbe iniziare da un semplice principio: la politica estera degli Stati Uniti non dovrebbe dare la priorità ai profitti aziendali rispetto alle famiglie americane. Per assicurarsi che la globalizzazione avvantaggi gli americani di classe media, i negoziati commerciali dovrebbero essere usati per ridurre il potere dei monopoli multinazionali e combattere i paradisi fiscali”). Quanto all’accoglienza ricevuta sulla sua candidatura, la stampa di sinistra e di destra si è affrettata a sottolineare che il suo tasso di gradimento è piuttosto basso, a ricordare la controversia sulle sue origini native-americane, e ad elencare gli usuali strali lanciati contro di lei dai repubblicani. Anche, afferma un articolo di Atlantic che offre un’interessante prospettiva, in maniera alquanto strumentale. D’altronde, senza voler proporre paragoni eccessivamente arditi, al momento della loro discesa in campo anche le candidature di Donald Trump e Bernie Sanders avevano suscitato più ilarità che altro. E poi, per l’uno e per l’altro, sappiamo bene com’è finita…

 

 

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Giulia Pozzi

Giulia Pozzi

Classe 1989, lombarda, dopo la laurea magistrale in Filologia Moderna all'Università Cattolica di Milano si è specializzata alla Scuola di Giornalismo Lelio Basso di Roma e ha conseguito un master in Comunicazione e Media nelle Relazioni Internazionali presso la Società Italiana per l'Organizzazione Internazionale (SIOI). Ha lavorato come giornalista a Roma occupandosi di politica e affari esteri. Per la Voce di New York, è stata corrispondente dalle Nazioni Unite a New York. Collabora anche con "7-Corriere della Sera", "L'Espresso", "Linkiesta.it". Considera la grande letteratura di ogni tempo il "rumore di fondo" di calviniana memoria, e la lente attraverso cui osservare la realtà.

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