La legge c.d “Spazzacorrotti”, in corso di approvazione, può essere colta in un suo tratto essenziale: che esime da minute analisi, comma per comma, peraltro del tutto superflue, come si vedrà.
Questo tratto, questo carattere, è la violenza.
Violente sono le sue parole; violento è lo scopo cui tende; violenta la condotta politica del Governo che la sostiene; violenti i suoi ispiratori ideologici; violenta la società cui metterà capo; violentissime le istituzioni che la incarneranno.
A tacer d’altro: il bando perpetuo (cd “Daspo a vita”) è un arnese normativo cupo e vile, in auge presso i più noti assassini di stato della storia, dai campioni novecenteschi ai padri ignobili in tonaca e breviario. Che nega, in radice, qualsiasi idea riconciliativa, di recupero o rieducazione.
L’agente sotto copertura, è un tributo al terrorismo diffuso, all’ombra come dimensione interiore, alla diffidenza reciproca, fra uomo e uomo, fra collega e collega, fra vicino e vicino, alla “Legge” come fattore di innesco e propagazione di una “oncologia sociale”.
La “denuncia volontaria e preventiva”, sorretta dall’impunità, ricostituisce la delazione come “maschera protetta” per ogni sorta di meschinità vendicativa; per contrabbandare l’inadempienza quale virtù; per sostenere il peggio parassitario a danno del meglio che, pur fra cappi burocratici, si industria e agisce.
Le “limitazioni all’accesso a benefici penitenziari” annunciano “le segrete” come nuovo “luogo politico”; dove la ragione unica dello strumento detentivo, eletto alla sua più sadica e micidiale soglia afflittiva, sia quella dello stupro di stato: affinchè la persona ne esca “segnata a vita”; distrutta.
Parole violente; scopi violenti, ispirazioni violente, progetti sociali e dottrine politiche violente e dissolutrici.
Questa legge tende, dunque, ad un “modello di società”. E, dunque, rileva per la somma, non per i singoli addendi. Per questo dicevo che non importa fare i filologi. Ma quale società?
Niente, nessuno, può precisarne contorni e contenuti meglio di queste parole:
“L’obbiettivo…è quello di costringere ciascuno di noi a rompere, definitivamente e irrevocabilmente, con quello che loro chiamano il nostro “ambiente”. Ciascuno di noi, già compromesso nella propria dignità agli occhi della opinione pubblica, per il solo fatto di essere inquisito o, peggio, essere stato arrestato, deve adottare un atteggiamento di “collaborazione”, che consiste in tradimenti e delazioni che lo rendano infido, inattendibile, inaffidabile: che diventi cioè quello che loro stessi chiamano un “infame”.
…a ognuno di noi deve dunque essere precluso ogni futuro, quindi la vita, anche in quello che loro chiamano il nostro “ambiente”.
La vita, dicevo, perché il suo ambiente, per ognuno, è la vita: la famiglia, gli amici, i colleghi…
Già molti sostengono, infatti, che agli inquisiti come me dovrà essere interdetta ogni possibilità di lavoro non solo nell’Amministrazione pubblica o parapubblica, ma anche nelle Amministrazioni delle aziende private, come si fa a volte per i falliti.
Si vuole insomma creare una massa di morti civili, disperati e perseguitati, proprio come sta facendo l’altro complice infame della magistratura che è il sistema carcerario.”
Come si ricorderà, sono parole di Gabriele Cagliari: un uomo, la cui tragedia sta all’origine della china cruenta, e civilmente distruttiva, che ci ha condotto a questo Governo di malfattori. E che terribilmente simboleggia lo scopo ultimo di questa legge immonda e farabutta.
Tuttavia, ci fu, c’è, dell’altro.
Scrivendo che “Stanno distruggendo le basi di fondo e la stessa cultura del diritto, stanno percorrendo irrevocabilmente la strada che porta al loro Stato autoritario, al loro regime della totale asocialità”, certo, descrisse compiutamente, e col vigore profetico che solo la lucidità del momento estremo può consentire, l’abominio culturale, umano, giuridico ed istituzionale che ci apprestiamo a vivere: “Stato autoritario” e “Regime di totale asocialità”.
Ma Gabriele Cagliari completò quel vero e proprio “testamento per l’Italia libera” che fu la sua famosa lettera dal carcere alla moglie, con un’epigrafe, infinita e perenne: “Io non ci voglio essere”.
Parlava a noi. A ciascuno di noi. Come fece Aldo Moro, scrivendo “il mio sangue ricadrà su di voi”.
Ad ognuno che ha contribuito ad imbarbarire la società italiana, con ogni applauso in prime time, con ogni rigo letto di “atti di indagine”, con ogni intimo compiacimento verso quel “sono tutti ladri”, che è stato, ed è, equivoco e plebeo patrimonio dei milioni, e non dei pochi.
Probabilmente, la notte sta solo per cominciare. Troppo a lungo si è partecipato al “Sabbah della Repubblica”, al grido dell’ “Italia, Paese più corrotto del mondo”, e troppo unanime è stato il coro, per pensare di cavarcela con poco.
Ma per ricominciare, bisognerà pur mantenere un pur vago orientamento di massima, grazie al quale, sostituire, pezzo a pezzo, i mattoni alle macerie.
E l’orientamento è che, alla “Svolta” di Mani Pulite, a questa novella Marcia su Roma o presa del Palazzo d’Inverno (in realtà, i due “illiberalismi “storici”, nacquero e rimasero sempre “compari”) i “carnefici” erano vittime, e “le vittime”, carnefici.