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March 17, 2018
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March 17, 2018
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Per l’elettore di sinistra, l’unica strada è davvero la rassegnazione?

Successo del M5S e sconfitta della sinistra: l'analisi post-elettorale di Claudio Micheloni, senatore eletto all’estero nelle ultime tre legislature

Claudio MichelonibyClaudio Micheloni
Per l’elettore di sinistra, l’unica strada è davvero la rassegnazione?

Luigi Di Maio e Matteo Renzi

Time: 4 mins read

Questo intervento è stato pubblicato nella newsletter della Federazione delle Colonie Libere Italiane in Svizzera.

Care amiche, cari amici, accolgo volentieri la proposta rivoltami da Anna-Maria Cimini di dare il mio contributo alla riflessione sui risultati delle elezioni politiche. La portata del cambiamento, com’è noto, è enorme. Si ha quasi la sensazione che in queste elezioni siano giunti a compimento processi politici in qualche modo paralleli, di breve, medio e lungo termine. Molti paragoni storici vengono proposti in queste ore sui vari media, dalle elezioni del 1976 a quelle del 1992, e probabilmente è ancora presto per discernere i fenomeni di superficie dai cambiamenti più profondi, dunque per capire se, e fino a che punto, queste elezioni possano rappresentare una cesura storica. In generale, occorre tener presente che quasi tutte le analisi che leggiamo in questi giorni, spesso presentate in forma apodittica, non sono altro che sondaggi successivi alle elezioni, normalmente basati su campioni e metodologie approssimative. Sono in contatto con un gruppo di giovani ricercatori che producono indagini molto più raffinate, per le quali, tuttavia, occorre tempo: sarò lieto di condividerle non appena mi sarà possibile.

Credo che in questa fase la cosa più importante sia porsi le domande giuste, e magari, ove possibile, sgombrare il campo dalle interpretazioni più semplicistiche. Per fare un paio di rapidi esempi: sarebbe grottesco imputare il crollo del PD a dei difetti di comunicazione; non è credibile considerare il successo imponente del M5S nelle regioni meridionali come un voto determinato esclusivamente dalla disperazione sociale e dalla chimera del reddito di cittadinanza. Una prima traccia utile la si può desumere dalla comparazione tra le elezioni italiane e i fenomeni politici più rilevanti degli ultimi anni nel contesto globale: le elezioni tenutesi nei diversi paesi europei, la vittoria della Brexit, l’elezione di Trump.

Il populismo, comunque lo si voglia definire, cresce, ma questo di per sé non ci dice molto: non è una novità, né lo possiamo vedere come un fenomeno omogeneo. Un dato che accomuna tutte queste vicende politiche, indipendentemente dai diversi esiti, è la contrapposizione tra città e campagna. La ritroviamo anche in Italia, ed è interessante osservare come da noi appaia in una forma complessa: la destra più forte nei piccoli centri, il M5S travolgente nelle città medie e nelle periferie dei grandi agglomerati urbani (dove ovviamente anche la destra riscuote grandi consensi, ma non in tutto il Paese), ciò che rimane del centrosinistra asserragliato nei centri storici delle grandi città e nei quartieri residenziali ove abitano i ricchi.

Se prendiamo invece le indagini basate sulla discriminante anagrafica, vediamo come PD e Forza Italia mantengano le posizioni solo tra i pensionati, mentre il consenso al M5S, rispetto al 2013, si espande in tutte le fasce generazionali (tranne l’ultima, dove comunque cresce), con numeri simili a quelli che riscuoteva un tempo solo tra i più giovani. Il voto giovanile, che in altri contesti si è orientato su una scelta di sinistra radicale (Sanders, Corbyn), in Italia premia soprattutto il M5S e, in misura minore, la destra; il fatto che, anziché svanire o rimanere confinato in quell’alveo, tale consenso si estenda alle altre fasce anagrafiche, ci porta a pensare che la sua qualificazione come “voto di protesta” sia, quanto meno, riduttiva, se non ormai anacronistica.

I numeri potranno darci ulteriori spunti di riflessione nelle prossime settimane. Quello che mi sembra si possa dire già adesso, se consideriamo in particolare l’affermazione del M5S, è che tutte le etichette con cui si era cercato, dopo il 2013, di interpretarne il successo (protesta, populismo, marginalità, frustrazione, etc.), sono saltate. Si trattava, in effetti, non tanto di tentativi di cogliere una realtà in mutamento, ma di rimuoverla, riconducendola entro schemi rassicuranti. Sono passati decenni da quando abbiamo cominciato a discutere di crisi della rappresentanza, ma non riesco a ricordare una proposta, una teoria, un programma d’azione che aggredisse davvero la questione. Le diseguaglianze sociali aumentano, il divario nord-sud anche: la crisi globale, in tutto questo, ha ulteriormente aggravato le condizioni di un Paese che era a crescita zero già da molto tempo, ma non le ha determinate.

Se provo a mettermi nei panni di un elettore, l’unica “risposta”, se tale si può definire, che mi pare sia giunta dalla classe dirigente del paese e in particolare dal centrosinistra, è un invito alla rinuncia, alla rassegnazione: votateci perché le cose non potrebbero andare meglio di così, mentre possono andare molto peggio; votateci perché la nostra classe dirigente è l’unica in grado di gestire il Paese. Se la prima affermazione è discutibile, ma contiene almeno un nucleo amaro di verità, la seconda, a maggior ragione se guardiamo alle candidature presentate da tutte le forze di centrosinistra, dal PD a LeU, è palesemente falsa. Sapete già cosa penso di Renzi e del suo gruppo dirigente: portano addosso la responsabilità di una sconfitta catastrofica, per la quale è difficile trovare precedenti nella nostra storia. Forse andò peggio solo nel 1924, quando gli elettori erano accolti ai seggi dai militi fascisti armati.
Tuttavia, la mediocrità di queste persone è tale da impedire di attribuire a loro il pur prestigioso ruolo di affossatori della sinistra italiana: da una parte si tratta, come già accennato, di un processo globale e di lungo periodo; dall’altra parte, è evidente che se individui di quella levatura sono riusciti a distruggere una storia secolare, tale storia era già stata ridotta in condizioni disastrose.

Che fare? Dovremmo continuare a rassegnarci, prima di fronte allo snaturamento della sinistra, poi di fronte alla sua estinzione? Alla prima domanda non so dare risposte certe, alla seconda sì: la risposta è no. Non dobbiamo rassegnarci, semplicemente perché, se siamo di sinistra, non possiamo.
Una cosa la possiamo fare, anche perché per iniziare non c’è bisogno di un nuovo segretario o di indicazioni dall’alto: ricostruire un’intelligenza collettiva. Non sarà facile, ma voi avete già cominciato: è un buon segno, e non è poco.

(Aise)

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