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December 26, 2017
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2018: la resa dei conti tra capitalismo ottimista e capitalismo pessimista

Le due anime del capitalismo combattono una guerra feroce fra loro, consapevoli che la catastrofe è imminente

Francesco ErspamerbyFrancesco Erspamer
2018: la resa dei conti tra capitalismo ottimista e capitalismo pessimista
Time: 4 mins read

La fine dell’anno induce alle generalizzazioni e ai consuntivi; in questi giorni ne leggerete tanti, su Trump, su #MeToo, sulla crisi o viceversa sulla ripresa: la fine dell’anno induce anche alla propaganda. Invece il mio consuntivo di fine anno lo dedicherò a una questione di cui non si parla e che neppure è improvvisamente emersa nel 2017 — forse già dal 2001 e dall’undici settembre, forse dal 2008 e dal crack finanziario —; ma che quest’anno mi pare sia diventata incontrovertibile e dunque non più eludibile da chi abbia ancora a cuore il futuro del mondo e il bene comune: parlo della guerra globale in corso all’interno del neocapitalismo.

Un’illimitata crescita economica e demografica è ovviamente insostenibile in un pianeta di dimensioni limitate; eppure sino a qualche tempo fa ci si illudeva che si potesse far finta di niente ancora per qualche generazione; che ci pensassero i posteri a risolvere il problema quando proprio non restasse altro da fare, nel più puro stile dell’individualismo appiattito sull’immediato che caratterizza la nostra epoca e del dogma del libero mercato come unico meccanismo sociale. Invece sta diventano evidente che la crisi è molto più prossima e che se non ci saranno cambiamenti profondi (e programmatici, ossia imposti) l’ambiente e la società si deterioreranno ed esploderanno già durante la vita di parecchi di noi e certamente dei nostri figli.

Altrettanto evidente è la causa della deriva: il sistema capitalistico, che non può esistere senza crescita e che dunque continuerà a fomentarla, e che a questo scopo ha completamente sdoganato l’avidità e l’egoismo umani, trasformandoli anzi in virtù, ahimè proprio nell’epoca in cui gli straordinari progressi della scienza e della tecnologia ci hanno, per la prima volta nella Storia, messi nella condizione di dominare la natura, di annientarla e così di autoannientarci. Della crisi imminente anche i capitalisti sono coscienti e per questo è iniziata fra loro una guerra feroce. Quasi tutti gli eventi che hanno scosso il mondo nel terzo millennio sono dirette conseguenze di questo scontro interno.

Da una parte c’è un capitalismo che ammette le sofferenze del pianeta e vorrebbe provare a sanare la situazione, anche al prezzo di qualche rinuncia e concessione, per esempio destinando una percentuale significativa degli investimenti alla ricerca scientifica, all’educazione e alla protezione dell’ambiente e delle categorie più deboli: un capitalismo ottimista, panglossiano, che davvero crede nelle intrinseche virtù del liberismo e che attribuisce a economia, scienza e tecnologia la capacità di raggiungere qualsiasi traguardo. Lo stesso sempre di capitalismo si tratta, non di socialismo: non riuscirà mai ad anteporre le esigenze collettive a quelle dei ricchi e delle grandi corporation, né saprebbe rinunciare alle moltiplicazione del denaro, neppure se l’alternativa fosse la scomparsa della specie umana.

Dall’altra parte c’è un capitalismo che invece nega le proprie contraddizioni e i problemi sociali e ambientali del mondo, e accusa i suoi detrattori di usare l’allarmismo come strumento propagandistico; ma lo fa perché in realtà persuaso che la catastrofe sia imminente e soprattutto inevitabile, ossia che di soluzioni indolori o semplicemente umane non ce ne siano e che comunque si arriverà all’eliminazione fisica di buona parte della popolazione mondiale o alla sua schiavizzazione. Un capitalismo pessimista, hobbesiano, che coerentemente punta solo a rafforzarsi, armarsi e radicalizzarsi, senza mostrare alcun cedimento e accettare alcun compromesso; piuttosto che alla redistribuzione parziale delle ricchezze punta alla creazione di una nuova aristocrazia, a una stirpe di dèi, l’unica che in caso di catastrofe potrà sopravvivere.

Un esempio di quest’ultimo capitalismo, pessimista e realista, è il trumpismo: Trump è l’espressione di un capitalismo consapevole della fine imminente del tipo di civiltà a cui ci siamo abituati, e pronto a ricorrere a estreme misure pur di salvarsi. Una specie di fascismo, ma solo nel senso che anche il fascismo storico era disposto a qualsiasi orrore pur di permettere, darwinianamente, la conservazione dei migliori della specie (una meritocrazia della vita). L’altro capitalismo, quello ottimista e disposto a qualche compromesso, è invece rappresentato dalle pseudo-sinistre liberiste che governano in tanti paesi occidentali, per esempio il Pd di Maria Elena Boschi e di Matteo Renzi; un capitalismo che non ricorrerebbe a un olocausto ma che con la sua incompetenza, arroganza e cupidigia ci sta rapidamente portando alla catastrofe.

È indispensabile, direi vitale, che la sinistra si renda conto al più presto di questa doppia anima del capitalismo in modo da evitare di aiutare accidentalmente, in qualsiasi modo, il capitalismo pessimista a soppiantare quello ottimista o il capitalismo ottimista a mantenere indefinitamente la sua egemonia. Perché altri decenni di capitalismo ottimista la Terra non può permetterseli; mentre il capitalismo pessimista per salvarla non esiterebbe a provocare distruzioni di massa e una regressione sociale verso la barbarie, come a suo tempo la Germania nazista — e senza un’Unione Sovietica in grado di tenerle testa.

Che fare allora? Adattare la strategia di lotta al tipo di capitalismo che ci si trovi ad affrontare in specifiche contingenze. Se il capitalismo più forte è quello pessimista, bisogna assolutamente allearsi con il capitalismo ottimista, consapevoli che in uno scontro frontale con il capitalismo pessimista la sinistra verrebbe annientata; quanto alla parte del popolo che sostenga per disperazione o per bisogno di certezze il capitalismo pessimista (che è spesso populista), va antagonizzata e accusata di fascismo (benché il termine sia improprio). Ma se a dominare è il capitalismo ottimista, la sinistra deve andare allo scontro frontale e tentare la conquista del potere, senza farsi ingannare dalla moderazione del regime o allettare dalle sue offerte di compromesso. In questa fase dovrà guardarsi bene dall’allearsi con i partiti del capitalismo pessimista, anch’essi all’opposizione, ma cercherà di portare dalla propria parte coloro che per disperazione o bisogno di certezze si fossero avvicinati alla destra populista.

Per riassumere, e lasciare al 2018 una proposta di azione politica: al capitalismo brutale (Trump) si resiste contrapponendosi con la forza alle masse che lo appoggiassero (i trumpisti) e alleandosi tatticamente con le forze moderate; invece il capitalismo moderato (il Pd) lo si sconfigge attaccandolo e aggregando contro di esso tutti gli scontenti, populisticamente.

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Francesco Erspamer

Francesco Erspamer

Nato a Bari, cresciuto a Parma e in Trentino, laureato a Roma, professore a Harvard. Mi interesso di letteratura, politica, storia delle idee e cambiamenti culturali. Insegno corsi su estetica, romanzo moderno e contemporaneo, Rinascimento, calcio. Di recente ho scritto: La creazione del passato, Sulla modernità culturale e paura di cambiare, Crisi e critica del concetto di cultura. Come Gramsci, penso che al pessimismo della ragione occorra accompagnare l’ottimismo della volontà, e come James Baldwin, che la libertà non la si possa ricevere in dono: bisogna prendersela.

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