Non appena si è insediato all’EPA, l’Environmental Protection Agency, Scott Pruitt non ha mancato di ribadire quello che da quasi un decennio ormai è il suo mantra: il principale responsabile dei cambiamenti climatici in atto non sarebbe il biossido di carbonio (CO2).
Quello che Pruitt si è guardato bene da dire è in base a quali studi o ricerche sia giunto a queste conclusioni.
La sua ostilità verso la tesi antropocentrica legata ai cambiamenti climatici risale al 2011 (almeno). Quell’anno Pruitt, allora procuratore generale dell’Oklahoma, dichiarò apertamente guerra all’EPA accusandola di aver travalicato il proprio ruolo. La tesi di Pruitt era che le decisioni prese da Barack Obama, allora presidente degli USA sulla base delle direttive dell’EPA (che prevedevano una forte riduzione delle emissioni di CO2) non spettavano a loro, ma ai singoli stati. “According to the Clean Air Act, it is the responsibility of the state to create a plan to improve visibility and reduce regional haze in wildlife areas, and we are intent on preserving that right”.“By ignoring Oklahoma’s plan, the EPA not only usurped the right of Oklahoma to set its own energy policy, but violated the process required by the Regional Haze Rule”, dichiarò Pruitt.
Seguirono duri scontri che finirono nelle aule dei tribunali (presso la decima Circuit Court of Appeals di Denver). In poco tempo, però, la disputa assunse un tono diverso: emersero prove di finanziamenti erogati da compagnie con interessi nel settore delle fonti energetiche e dei combustibili fossili e lo stesso Pruitt o soggetti a lui vicini. Fu il New York Times, tra gli altri, a denunciarlo pubblicando la lettera con la quale Scott Pruitt accusava l’Environmental Protection Agency di sopravvalutare la quantità di inquinamento atmosferico causato dalle società di perforazione di nuovi pozzi di gas naturale nel suo stato. Da quanto emerse questa lettera appariva palesemente come scritta dagli avvocati della Devon Energy, una delle più grandi compagnie petrolifere e del gas di Oklahoma.
I “tecnici” dello staff di Pruitt avevano solo copiato su carta intestata (e cambiato poche parole) e l’avevano inviata a Washington. Quel documento era ed è importantissimo: innanzitutto perché dimostrava che esistevano forti pressioni da parte delle compagnie petrolifere su Pruitt; ma soprattutto, confermava che le teorie da lui presentate non erano basate su alcun fondamento scientifico.
Pruitt cercò di spostare l’attenzione sulla politica internazionale e lanciò la tesi secondo la quale la teoria del rapporto tra emissioni di CO2 e cambiamenti climatici sarebbe stata opera dei cinesi che ne avrebbero approfittato per rallentare la crescita dei paesi sviluppati (come gli USA). Non è un caso se la stessa tesi è stata poi ripresa da Trump durante la campagna elettorale per la Casa Bianca: “Il concetto di riscaldamento globale è stato creato da e per i cinesi al fine di rendere la produzione degli Stati Uniti non competitiva”, come scrive Donald J. Trump @realDonaldTrump nel twitt ripreso qui sotto.
Intanto continuò a crescere il numero di quelli che denunciavano i legami tra Pruitt e le società petrolifere. A farlo fu anche Greenpeace: “Pruitt è il prodotto dell’industria del petrolio e del gas, piazzato in posti di rilievo per favorire i propri ideatori” disse il presidente di Greenpeace, Travis Nichols che definì Pruitt “un rischio”.
Questa polemiche non passarono inosservate anche al Congresso: “Quando si utilizza una carica pubblica piuttosto spudoratamente, per garantire per un interesse finanziario, senza la divulgazione della vera paternità, è una pratica pericolosa,” dichiarò David B. Frohnmayer, un repubblicano che è anche avvocato generale in Oregon, “Il burattinaio dietro il palco sta tirando le stringhe, senza farsi vedere”.
Le dispute di Pruitt in Oklahoma e il suo tentativo di esautorare l’EPA avrebbero potuto avere conseguenze non da poco: proprio in questo stato molte industrie e utenze elettriche dipendevano (e dipendono) da combustibili fossili, in particolare dal carbone e dal gas naturale. Ma mentre il gas naturale era estratto in Oklahoma, il carbone proveniva da altri stati. “Penso che il passaggio dal carbone al gas naturale è piuttosto lenta”, aveva dichiarato Pruitt. Che aggiunse: “Credo che l’atteggiamento con l’EPA che i combustibili fossili sono cattivi sia sbagliato. E che stanno facendo tutto il possibile per utilizzare il processo legislativo per attaccare entrambi”.
In breve divenne evidente che quella di Pruitt era una battaglia che aveva molti fondamenti e che si svolgeva su più fronti, ma che di certo non era legata a basi scientifiche (“il carbone e il gas naturale inquinano? E quanto?”), ma sugli interessi economici legati allo sfruttamento delle fonti energetiche convenzionali.
Dal 2011 ad oggi, Pruitt ha citato in giudizio l’EPA 13 volte e ha sempre tentato di ribaltare le norme sull’acqua o sull’impatto ambientale o sulla politica climatica promossa da Obama. E sempre le sue giustificazioni non sono state scientifiche ma basate su argomenti giuridici o economici. E ogni volta, ha cercato di screditare l’EPA e di vedere riconosciuto il diritto di qualcuno (che fosse un’industria, una multinazionale o lo stato dell’Oklahoma) di non rispettare queste limitazioni. Come ha detto Rhea Suh, presidente del Natural Resources Defense Council, “Pruitt sembra destinato per la sala ambientale della vergogna”.
Dopo l’ascesa al vertice della Casa Bianca di Trump la situazione è mutata radicalmente: il “climatoscettico” Scott Pruitt è stato messo a capo proprio dell’ente che per anni ha combattuto, l’EPA. E la prima cosa che ha fatto è stata prendersi la rivincita: dichiarando che gli studi condotti dagli stessi ricercatori che per anni avevano osteggiato le sue politiche legate alle emissioni di CO2 non servono a niente. “Per troppo tempo, l’Environmental Protection Agency ha speso soldi dei contribuenti su progetti fuori controllo per l’ambiente che sono costati milioni di posti di lavoro, ma hanno minacciato anche i nostri incredibili agricoltori e molte altre aziende e industrie”, ha detto Trump, aggiungendo che Pruitt avrebbe “invertito questa tendenza”. E, infatti, tutte le dichiarazioni del nuovo capo dell’EPA, a dicembre 2016 (e poi nei giorni scorsi) sono state negazioniste.
Questa tesi potrebbe avere conseguenze spaventose a livello globale. Innanzitutto perché, come già annunciato, potrebbe rimettere in discussione gli accordi sottoscritti a Parigi durante la COP21 (Pruitt lo ha definito “il cattivo Accordo di Parigi”) e poi ratificati a Marrakech con la COP22 (che, infatti, era stato incentrato principalmente sulla decisione che avrebbero preso gli USA dopo le elezioni). Ma tutto ciò potrebbe avere un effetto a catena devastante dato che Cina e India, tra i maggiori responsabili delle emissioni (con gli USA), hanno ratificato gli accordi per le riduzioni delle emissioni solo sotto la pressione degli americani.
Le tesi di un ente così autorevole come l’EPA potrebbero avere quindi gravi ripercussioni sulla politica ambientale non solo degli USA. Il passo indietro dell’amministrazione Trump (fondata sulle dichiarazioni di Pruitt) potrebbe essere utilizzato come cavillo per giustificare il crollo degli accordi della COP21 (che sono validi solo nel caso di ratifica da parte di almeno il 55% dei responsabili delle emissioni e del 55% dei paesi). Se così fosse anche i paesi europei potrebbero essere costretti a cambiare la propria politica ambientale, fino ad ora basata su un’ “Azione per il clima” volta alla riduzione delle emissioni di CO2 considerate le principali responsabili dei cambiamenti climatici.
Ma non basta. Se ciò dovesse avvenire, le multinazionali di tutto il pianeta non sarebbero più costrette a limitare le emissioni. E tutto questo non sulla base di una prova scientifica che dimostra che effettivamente l’impatto delle emissioni di CO2 sull’ambiente non causano i cambiamenti climatici in atto: semplicemente perché una persona, sulla base di pressioni più volte giudicate dubbie (per essere eufemistici) da parte delle multinazionali dei combustibili fossili, ha dichiarato il contrario.
“Questo è un momento spaventoso”, ha detto Naomi Oreskes, professore dell’Università di Harvard, “nelle ultime settimane abbiamo visto consegnare le redini del governo federale alla industria dei combustibili fossili”. “I messaggi di posta elettronica dimostano che esistono rapporti tra l’ufficio di Pruitt” e molte compagnie petrolifere e del carbone, come ha dichiarato Nick Surgey, direttore del Center for Media and Democracy. Che ha aggiunto “Pruitt è ora a capo di uno degli enti responsabili dei regolamenti internazionali sull’ambiente e questi messaggi di posta mostrano palesemente un conflitto di interessi. Come ha già dimostrato in passato opponendosi alle regole promosse proprio dall’ente di cui oggi è a capo”. A fargli eco il senatore Chuck Schumer che in un comunicato ha detto che Pruitt “ha una storia inquietante di rappresentanza degli interessi dei big Oil a spese della salute pubblica”. Una responsabilità che fino ad ora è stata solo nei confronti degli americani. Ma che ora ricade su tutto il pianeta.
A conferma che i peggiori timori sorti dopo la nomina di Pruitt a capo dell’EPA erano tutt’altro che infondati, mercoledì il presidente Trump ha ribadito che effettuerà considerevoli tagli agli aiuti esteri e alla spesa per programmi contro la povertà e per l’ambiente (per destinare queste somme alla difesa del confine meridionale e al Pentagono). Una decisione che significherà per l’Environmental Protection Agency una secca riduzione del 31 per cento. Ben 2.6 miliardi di dollari in meno che dovrebbero essere raggiunti anche grazie al licenziamento di un quinto del personale, ben 3.200 lavoratori. Si tratta di tagli che neanche i più ferrei oppositori repubblicani del programma di regolamentazione dell’agenzia aveva mai osato proporre: lo scorso anno al Congresso i repubblicani avevano chiesto tagli per 291 milioni di dollari a fronte di un bilancio di 8 miliardi di dollari.
Se dovesse essere approvata dal Congresso la decisione del nuovo presidente degli USA comporterebbe un impoverimento senza precedenti dell’ente: per risalire ad un bilancio paragonabile a quello che vorrebbe Trump si dovrebbe andare indietro di quasi mezzo secolo (al netto dell’inflazione). Minori fondi a disposizione e meno personale significherebbe eliminare le risorse necessarie per effettuare gli studi sui cambiamenti climatici. Come dire tarpare leali a chi fino ad ora aveva osato mettersi contro gli interessi delle multinazionali del petrolio. Ma non basta. Trump ha anche annunciato che intende tagliare i fondi provenienti dalle casse degli USA destinati alle Nazioni Unite per progetti e studi sui cambiamenti climatici.
Perfino Scott Pruitt, che pure ha destinato buona parte della propria vita a distruggere l’EPA, si è precipitato alla Casa Bianca per chiedere un taglio meno deciso al budget a disposizione dell’ente: tagli così netti infatti renderebbero impossibile svolgere quelle che Pruitt ha definito missioni fondamentali dell’Agenzia. In altre parole, se il Congresso dovesse approvare le misure chieste da Trump all’EPA non resterebbero nemmeno i soldi per dargli ragione quando dichiara l’opposto di quello che dicono tutte le università e i centri di ricerca del mondo.
C.Alessandro Mauceri