Il “Gran Rifiuto” della Giunta Raggi alla candidatura di Roma, quale sede olimpica per i Giochi del 2024, è stato politicamente superficiale: non perché le Olimpiadi, in quanto tali, siano la Terra Promessa; o perché, come si dice con un fremito invero un po’ dogmatico, gli imperativi delle “leggi economiche” suggerirebbero quella via: per avviare o rilanciare un ciclo economico “capitale”, o municipale, o anche solo simbolico. Ma per una ragione più profonda: quel rifiuto si nutre di una radicale e insuperabile sfiducia non solo verso gli altri, che sarebbe già condizione critica per qualunque pubblico amministratore, ma soprattutto verso sé stessi.
Il riferimento alle “colate di cemento” non è irragionevole, in sé considerato; sia pur espresso con maldestra semplificazione (come si dice: la campagna elettorale è finita), sembra voler alludere al rischio di una deriva gestoria ed esecutiva, in cui una grande opera pubblica, magari accettabile, finisce col trasformarsi da idea in mero pretesto, da luminoso progetto in oscuro tramestìo.
Sappiamo dal Sapiente: nulla di nuovo sotto il sole. Quando Napoleone III, nel 1852 decise di rifare Parigi da cima a fondo, “Parigi abbellita, ingrandita”, votandosi ai grands boulevards, non tutti ne furono contenti; Emìl Zola scrisse un romanzo, intitolandolo La Cureè (La Cuccagna); e lo potè scrivere perchè ci fu anche quella. Ma i boulevard si fecero. E, nonostante l’alto magistero critico di Zola, nessuno, fra gli studiosi contemporanei e posteriori, in Francia e altrove, ha mai tradotto quella vasta vicenda politica ed urbanistica, puramente e semplicemente, in termini di corruzione, di scandali, di illeciti arricchimenti. Che pure si ebbero.
Qualche tempo dopo, nel 1871 e negli anni immediatamente successivi, Roma, fresca capitale del Regno d’Italia, dovette darsi strutture edilizie ed urbanistiche che non aveva. Ricorda Ugo Pesci, giornalista e scrittore contemporaneo, prezioso testimone di quell’avventura, che “per gli impiegati da trasferirsi a Roma capitale occorrevano 40.180 stanze”, e ce n’erano 500; e ancora alla fine del 1872, per di più con le procedure d’espropriazione per pubblica utilità, si dovevano trasformare “molti fienili in case abitabili”. Tuttavia, un altro insigne letterato, anch’egli contemporaneo, lo storico Ferdinand Gregoriovus, il maggiore studioso della Roma medievale, a proposito degli interventi edilizi che si stavano compiendo, scriveva: “Hanno demolito Porta Salaria, la vecchia porta veneranda da cui una volta sono passati i Goti….s’imbiancano le case, anche gli antichi venerandi palazzi…i conventi vengono cangiati in uffici…si aprono le finestre claustrali e se ne fanno di nuove nelle pareti…”. Ma Roma che, essendo del tutto priva di una classe borghese, poteva offrire alle necessità del nuovo Stato molte chiese, palazzi, conventi (e anche casupole fatiscenti), ma non sufficienti alloggi né uffici, solo così divenne capitale d’Italia.
Se mi sono permesso questa minima digressione, è per rilevare come due espressioni politiche tanto diverse fra loro, il Secondo Impero, augusto di tradizioni e di potenza, e la fragile e neonata Italia, ebbero però entrambi fiducia in sè stessi. E che, per questa semplicissima, ma immensa buona ragione, perseguirono un‘idea: affrontando rischi, commettendo errori, introducendo, ai nostri più navigati occhi di posteri, non meno guasti di quanti ne risolsero; e tuttavia agirono, vissero, ci furono.
Ora, con questa storia delle Olimpiadi, la mancanza di fiducia in sé, già impietosamente tradita dal pasticciatissimo avviamento istituzionale, ha condotto il M5S, che ambirebbe a farsi portatore di radicali diversità, nel piccolo gesto come negli stessi fondamenti teorici dell’agire politico e democratico, ad usare le stesse “categorie” di pensiero (diciamo) dei suoi “avversari”. “Il cemento”. Ma non era scontato che questo dovesse risultare, realmente, l’unico discrimine fra sé e gli altri.
Per proporre una politica rinnovata, la Giunta Raggi avrebbe potuto assumere la parola “cemento” come sinonimo di “strumento”. Ed invece, lo ha considerato come la ragione finale, l’essenza stessa della questione politica sottoposta al suo esame. Affermare che i Nuovi Impianti producono ineluttabile corruttela e, pertanto, sono il male in sè, equivale ad affermare che producono sicura ricchezza economica e, per questo, sono il bene in sè. Il piano del confronto sono e rimangono gli Impianti in sè. Il Governo dice una cosa, il Sindaco quella opposta; ma parlando la stessa lingua. Invece Raggi avrebbe dovuto proprio parlare un’altra lingua. Quale? Vediamo.
Si consideri che le ultime Olimpiadi, quelle di Rio de Janeiro, sono state segnate vistosamente dalla riscontrata presenza di numerosi casi di doping; basti ricordare che un’intera Federazione nazionale di Atletica Leggera, quella russa, è stata squalificata dai Giochi; per non parlare di singoli casi; senza contare che l’effettività dei controlli non è esattamente parsa di granitica efficienza, come da ultimo sembrerebbe confermato anche dalla questione delle esenzioni mediche “generose” (nel 2015: 179 in Spagna, 136 negli Stati Uniti, 88 in Gran Bretagna); fino al punto che la WADA, la nota Agenzia Mondiale Antidoping, da più parti è stata duramente criticata: proponendosene persino la soppressione e sostituzione con un “ente successore”, come ha sostenuto il Presidente del Comitato Olimpico dell’Argentina.
L’Italia vanta uno dei maggiori esperti, se non il maggiore, proprio nell’analisi del doping e della droga nello sport, nonchè delle funzioni (e delle disfunzioni) di ogni singolo ufficio dell’Apparato sportivo, nazionale ed internazionale: il Prof. Alessandro Donati; è arcinoto che il suo nome è stato legato al caso di Alex Schwazer, il marciatore italiano squalificato poco prima delle ultime Olimpiadi, all’esito di una procedura vistosamente anomala e condotta in spregio al più elementare rispetto del diritto di difesa; e vanta, l’Italia, anche i maggiori architetti al mondo (per tutti, menzionare il Prof. Renzo Piano non recherà offesa e nessuno); e, se il Sindaco di Roma non la prende a male, vanta anche moltissime persone perbene, capaci di lavorare ogni giorno ed in silenzio.
Un modo realmente nuovo di occuparsi di Olimpiadi poteva essere porre sul tappeto proprio la necessità di ricostruire fiducia e rispetto verso lo sport. Ed in nome della politica, cioè della Pòlis, cioè di tutti.
Un vasto progetto, che avrebbe coinvolto la pubblica istruzione, le centinaia di migliaia di praticanti per passione, che avrebbe ridiscusso l’intera filiera degli enti di gestione sportiva, CONI, singole Federazioni (per es: atletica, calcio, ciclismo, nuoto). Sulle Olimpiadi di Roma si poteva issare una bandiera, un’idea: restituire lo sport agli sportivi. Facendolo però con la forza, anche economica, che una simile vicenda indubbiamente avrebbe comportato: potere contrattuale, capacità di intervento.

Il cemento non può essere un problema: dato che col cemento si costruiscono scuole ed ospedali, se si sanno costruire; in questo caso, si sarebbe potuto usare “il cemento”, e gli interessi che muove, per subordinarne il soddisfacimento, in concreto, alla meta ultima, la più alta e politicamente qualificante. Giacchè, se in Italia ogni più sperduto comune gode di giusti poteri di controllo e di guida sul proprio territorio, figurarsi di quali poteri dispone l’ex Città di Roma, ora Roma Capitale. Ai comuni oggi mancano i soldi, non i poteri. E, in questo caso, i soldi ci sarebbero stati.
Vuoi fare le Olimpiadi a Roma, caro il mio CONI? Anche la nostra Città, anche l’Italia; e, visto che ho il pallino, detto io le condizioni: a cominciare dal doping nello sport. Una simile proposta avrebbe suscitato sconcerto, e quindi un sicuro rifiuto? Perchè le criticità sono ampie e articolate, perchè la gestione del business sportivo lega enti sportivi ed istituzionali in una dimensione di interessi che travalica i confini di un singolo stato? Sarebbe comunque stato giusto avanzarla, in termini politici: perchè avrebbe fatto constare un atteggiamento ostile su una questione di principio, e realmente essenziale. Avrebbe marcato le differenze di linguaggio. E, anzi, lo avrebbe fatto, a partire dall’Italia che, come dimostrano le questioni del doping (ma non solo quelle) non deve temere lezioni da nessuno. E poi, nelle cose di questo mondo, seminare non è meno importante che raccogliere.
Lo sport è la sede in cui il gesto gratuito si può sublimare in pratica politica; dove il prossimo, con l’immediatezza che solo un ristretto spazio comune può assicurare, sa diventare esempio e non limite (per eccellenza: lo spazio di una palestra, di un campo da gioco, di una piscina, di un anello di atletica, delle ruote di due biciclette diverse che, quasi toccandosi, sembrano tendersi la mano, e così via); dove i bambini e i giovani sono avanguardia vivente di una popolazione in cammino, e non patina polverosa per virtuosismi da articolo di fondo.
Tutto questo avrebbe potuto essere il discorso nuovo di una politica nuova: a sapere dove mettere le mani, però; a pensarci per tempo, magari proponendosi in questi termini già agli elettori. Invece si è promessa una rinuncia, e una rinuncia si è mantenuta: non c’è che dire.
E’ come nella parabola dei talenti. La paura del male non è mai un alibi per “non mettersi in mezzo”, per non coltivare la speranza, per non spremersi le meningi. Mai.