È assai probabile che non ci sia giorno in cui non si svolga una votazione elettorale in qualche comunità del mondo. Anche le dittature personali si vantano di ricevere una investitura e una consacrazione dal voto popolare con percentuali di consenso quasi unanimi. In questo anno si è bombardati da una ossessiva propaganda che invade a forza la vita personale con pettegolezzi privati sulla vita e sulle idiosincrasie di tanti candidati politici in corsa. Dagli States si è diffusa anche la moda delle primarie con supplemento di giri finanziari astronomici. Chi non possiede simili somme non è per nulla svantaggiato, ci sono le lobby miliardarie ad offrirsi in attesa dello scambio di sostegno o ci sono, come in Italia, dei gruppi industriali e finanziari occulti cha hanno la certezza di trovare la copertura in sicuri prelievi su opere ed attività statali e parastatali.
In tutti gli Stati dell’universo mondo si è ormai in una incessante competizione elettorale. Si è pensato di diluire il potere in una piramide in cui la punta è espressa dal Presidente della Nazione. Esso va man mano degradando agli Stati federati o alle regioni, alle città grandi e piccole, fino ai quartieri e ai condomini, ugualmente organizzati e tutti elettivi, con un premier e un consiglio, con governatori, consiglieri e assessori e organismi vari di graduale emanazione del potere. Ripeto di potere, perché di questo si tratta nella generale ubriacatura di democrazia. Il popolo cede interamente la propria personale volontà (e la propria libertà) a singoli uomini e gruppi che, definitisi maggioranza, distribuiscono soprattutto divieti, talvolta libertà solo ai gruppi che li hanno proposti e dei quali sono emanazione. Diciamo popolo, perché tutto questo si esalta come “democrazia” e si celebrano su tutte le “democrazie occidentali”, modello da esportare, meglio da imporre con armi sempre più sofisticate e, per amor di patria e orrore di sangue, senza perdite umane di connazionali.
Sono le “democrazie” uscite vittoriose dal profano macello dell’ultima grande guerra, quello esaltato dal Manifesto del Futurismo di F.T. Marinetti del 5 febbraio 1909: «Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore».
Devo ammettere che dopo l’ignominia delle dittature europee e quel lavacro in altro senso purificatore, gli uomini tutti eravamo diventati più liberi e democratici. Nelle prime elezioni dell’Italia repubblicana del 2 giugno 1946 il diritto di voto con suffragio universale, maschile e femminile, fu per legge un dovere, adempiuto dall’89,08 % dei votanti. Nelle ultime votazioni del 2013 siamo scesi al 75,19%, pur sempre alto rispetto al 56% della Francia. Arduo stabilire quanti cittadini statunitensi hanno eletto realmente Barack Obama. Ma con qualche probabilità si tratterebbe di poco più di un cittadino su quattro. In questa altalena di partecipazione e di fuga di votanti, l’ubriacatura di democrazia.
Tutto cominciò con quella invenzione falsamente attribuita alla polis di Atene del “potere del popolo” (demos, “popolo”, e kratos, “potere”). È stato un termine che ha avuto un successo perenne fino ad oggi. E da lì cominciò il perfetto inganno. Se una perfetta democrazia in cui tutti i cittadini potevano essere votanti e candidati era possibile in una piccola comunità, ciò non avvenne mai neppure per i circa trentamila cittadini di Atene. Tale diritto fu riservato a ristretti gruppi di privilegiati a seconda delle epoche (ai tre primigeni gruppi tribali, poi con Solone a classi censuarie o timocratiche e infine con Clistene a gruppi territoriali). Era esclusa la maggior parte degli abitanti: oltre ai servi naturalmente anche i meteci, gli immigrati, esempio rinomato Cefalo, siracusano fabbricante di scudi, padre dell’insigne logografo Lisia. La cittadinanza era un diritto di “sangue”, assai rigido e severo. Alla fine l’insigne Pericle ebbe un potere personale assoluto tanto da stornare il denaro degli alleati della Lega attica per la costruzione dell’Acropoli. Opera eccelsa, ma sempre nata da un furto. Cosa fosse la democrazia ateniese lo appresero sulla propria pelle i Meli, come narra drammaticamente Tucidide suo esaltatore. Complessa è stata la storia della democrazia, che si è sempre intrecciata con le altre due forme di governo, la monarchia, superata in Grecia già dal V secolo a.C., e l’aristocrazia o oligarchia con le loro degenerazioni come spiegarono anche Cicerone nel suo De republica o Machiavelli, quello della spregiudicatezza amorale del Principe e della religione come instrumentum regni. Voglio solo ricordare l’inventore delle Costituzioni, Platone con la sua monumentale e particolareggiata Politeia, prima utopia politica con il primo esempio di comunismo dei beni.
Andiamo verso la grave scadenza di novembre, vitale per la storia degli States, che vuol dire poi di tutto il mondo. E fa riflettere quel populismo permeato di nazionalismo reazionario e razzista, che erge filo spinato. Capostipite la rissosa famiglia Le Pen, tutta versata alla conquista del potere, seguaci i vari tribuni italiani, venuti dal palcoscenico o dal segregazionismo razziale, questa ventata ha invaso l’Europa, incantando le giovani democrazie polacca e ungherese. I risultati elettorali e le misure restrittive alle frontiere della socialista Austria sono l’ultimo grave campanello di allarme. È vero, la crisi economica e l’invasione di disperati che fuggono dalla loro terra devastata hanno innescato questo incubo della perdita del benessere e dei beni. Gli States stanno tornando alla dottrina Monroe del 1823 e al filo spinato con il personaggio singolare e folkloristico del riccone reazionario ad oltranza. In confronto il nostro Burlusconi era uno statista. La gravità e la solennità delle scelte è ancor più decisiva per le sorti dell’umanità se si pensa per un attimo ad un Afghanistan e ad un Iraq ancora non sedati e pacificati e nel caos, ad una guerra di estrema crudeltà del tutti contro tutti in Siria, all’avanzata dell’Isis fino alla Libia frammentata ed esplosa in tribù di ras e allo stragismo imprevedibile in seno all’Europa e all’America. Su tutto questo odio montante e inarrestabile fra ricchissimi e miserrimi la crisi economico-finanziaria divenuta ormai endemica nello strapotere delle Banche e dei poteri finanziari. Il meccanismo capitalistico dell’incremento annuo di produzione e di consumo non poteva durare in eterno. È legge razionale che l’ingranaggio si sarebbe bloccato, con la saturazione del mercato per mancanza di acquirenti. Ecco perché sono basilari per l’ecumene le elezioni americane. Non si può delegare il potere gestionale del mondo ad un illusionista, ad un apprendista stregone.
In questa profonda crisi ideale della democrazia voglio perciò ricordare un importante Cinquecentenario, con l’auspicio che nella coscienza dell’uomo odierno rinasca l’Utopia. Senza di essa il mondo sarà sempre più buio e privo di salvezza. Era il 1516 quando uscì a Londra un romanzo in lingua latina con un titolo assai lungo che voglio riportare per le sue prodigiose sonorità in una nazione che ha diffuso la sua lingua nel mondo: Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia. Era il battesimo del vocabolo che avrebbe da solo avuto grandissima fortuna fino ad eclissare il romanzo che lo propose ed inventò. Nella fantasia di Thomas More, inglese del 1500, il termine intendeva esprimere nell’ambiguo conio da lui creato il “non-luogo” (da “ou”, “non” e “topos”, “luogo”. O forse anche da Eutopia, il “buon luogo”?). Tutti parlano oggi dell’alienante “non-luogo” architettonico, come stazioni aeroporti autogrill ipermercati centri commerciali, il non-lieux, definito dall’antropologo Marc Augé nel 1992, pochi saprebbero collegarlo con questa isola mirabile, in cui approdò nel suo viaggio Raphael Hythlodaeus, l’Arcangelo “che raccontava bugie”, e vi trovò un regno speciale, organizzato in una surreale società. Fra tutte le meraviglie il Rinascimento seppe riprendere la speranza platonica, una società di pace e di uguaglianza, assai prima delle enunciazioni Liberté, égalité, fraternité, la LEF illuministica. Era l’apoteosi del sistema creato da Platone, passato attraverso la vena irridente del beffeggiatore Luciano o la mistica religiosità di Plutarco e dei suoi Moralia, attraverso la lettura del geniale umanista, Erasmo di Rotterdam che con la stessa feroce ironia aveva steso L’elogio della pazzia.
Thomas More, umanista nella decentrata Londra, passato attraverso le perversioni del potere, Lord Cancelliere tra il 1529 e il 1532 con quel re autocrate, l’Enrico VIII delle sei mogli, scismatico da Roma per un divorzio impossibile, creatore di una religione per motivi più banali delle 95 tesi di Lutero. Quando il sovrano gli chiese di accettare l’Atto di supremazia, More oppose il suo rifiuto e con coraggio il 6 luglio 1535 salì sul patibolo. Perciò fu santo cattolico e dal 2000 per opera di Giovanni Paolo II patrono dei governanti e dei politici. Nel 1980 la chiesa anglicana lo elesse martire della riforma protestante.
Il suo romanzo del 1516 è un viaggio nell’isola di Utopia, capitale Amaurota, la città nascosta, governata da Ademo, “il senza popolo”. Certamente è fuori dalla realtà storica odierna la sua analisi della società reale (la condanna della pena di morte per furto), rivoluzionario invece il concetto che il male dei mali fosse la proprietà privata e quindi l’esigenza di abolirla per ripartire i beni in modo uguale. È l’adesione in pieno Rinascimento al comunismo utopico di Platone. Conseguente a questo principio il divieto legale nella sua isola della proprietà privata, la coltivazione a turni di due anni della terra da parte di ogni cittadino, il lavoro di sei ore al giorno per tutti, il tempo libero per dedicarsi ai propri piaceri, ma anche allo studio delle scienze e della filosofia. C’era la promozione della famiglia con la punizione dell’adulterio e la legge che «nessuno affermasse che le anime muoiono con il corpo e che il mondo è governato a caso, senza provvidenza divina».
Voglio ricordare soltanto qualche principio allora ed oggi essenziale, con l’invito a riscoprire questa fantasia rinascimentale piena di sorprendenti principi:
- la tolleranza religiosa: «per prima sancirono che ad ognuno fosse lecito seguire la religione che gli piacesse, che se si conducesse qualcuno anche nella sua religione lo potesse fare con semplicità e tranquillità con la ragione e non con la forza, con la persuasione, senza usare violenza alcuna».
- il rifiuto della guerra: «detestano sommamente la guerra come cosa veramente da belve, delle quali nessuna tuttavia se ne serve tanto assiduamente come l’uomo, né ritengono contro la natura di quasi tutte le genti nulla ugualmente inglorioso che la gloria acquistata in guerra».
- a parte la ferma fede nell’assoluto dominio del privato in ogni attività umana, c’è da rilevare una certa sintonia nel sistema degli States riguardo al fine della vita pacifica, cioè l’illuministico benessere individuale: la felicità è riposta nel piacere, pur tuttavia virtuoso.
- infine poche leggi, ma chiare: «Hanno poche leggi e biasimano gli altri popoli che riempiono di leggi e d’interpreti smisurati volumi, sembrando loro iniquo obbligare l’uomo a tante leggi, che non si possono leggere e tanto oscure da non capirsi. Non ammettono avvocati, anzi vogliono che ognuno dica in giudizio le sue ragioni, senza troppi cavilli e parole ornate».
Fu Tommaso Moro uomo controverso, anche lui condannò al rogo degli eretici, tanto che per questo Giovanni Paolo II affermò: «Si può dire che abbia dimostrato in modo eccezionale il valore della coscienza morale … anche se, nelle sue azioni contro gli eretici, abbia riflesso i limiti della cultura del suo tempo». Il suo capo esposto per un mese sul London Bridge testimoniò la sua fede nella libertà di coscienza esaltata da una morte socratica: «Avanzò quindi verso il ceppo, davanti al quale s’inginocchiò per la recita del Miserere. Poi si rialzò in piedi, e quando il boia gli si avvicinò per chiedergli perdono, lo baciò affettuosamente e gli mise in mano una moneta d’oro. Poi gli disse: Tu mi rendi oggi il più grande servizio che un mortale mi possa rendere».
Come corollario bastano alcuni titoli. Esilarante la Storia del Reame degli Orsi del 1863 di Gasparo Gozzi nello stile delle sue fiabe adatte per i bambini. O la parodia dei Gulliver’s Travels del 1726 di Jonathan Swift, di poco successivo al Robinson Crusoe di Daniel Defoe del 1719.
Diversamente dall’altra ideale utopia del 1623, La Città del Sole, dialogo poetico di Tommaso Campanella. Egli ebbe sorte migliore di More. Cantò nella poesia Delle radici de’ gran mali del mondo: «Io nacqui a debellar tre mali estremi: / tirannide, sofismi, ipocrisia, […] / Carestie, guerre, pesti, invidia, inganno, / ingiustizia, lussuria, accidia, sdegno, / tutti a que’ tre gran mali sottostanno, / che nel cieco amor proprio, figlio degno / d’ignoranza, radice e fomento hanno». Per la libera espressione del suo pensiero si procurò 27 anni nelle carceri di Napoli frammisti a cinque processi.
Carmelo Fucarino, siciliano di Prizzi, dopo essersi laureato in lettere classiche nell’Università di Palermo, ha insegnato lingua e letteratura latina e greca presso il Liceo classico «G. Garibaldi» della stessa città. Sensibile alla poesia, ha pubblicato liriche e dato contributi a riviste del settore letterario italiano, svolgendo ha svolto un’ampia e continua attività di saggista nel campo degli studi classici. Oggi ha ampliato il suo campo di indagine alla storia locale all’etnologia e alle tradizioni popolari siciliane.