Qualche giorno fa, la discussione pubblica sul Referendum costituzionale del prossimo Ottobre si è arroventata. L’ANPI, l’Associazione nazionale Partigiani d’Italia, ha fermamente dichiarato di concorrere ai Comitati per il No. Il Governo, in particolare, il Ministro Maria Elena Boschi, ha criticato la scelta e il metodo di essa.
In effetti, la decisione del direttivo ANPI, di deferire alla Commissione di Garanzia (una sorta di autorità disciplinare dell’ANPI) gli iscritti che decidessero di votare Sì al Referendum, è apparsa a molti assai discutibile.
Si è comunque diffusamente osservato che lo scontro sarebbe di importanza trascurabile, giacchè occuparsi dell’opinione di quanti non sono più (la maggior parte di coloro che hanno vissuto la Resistenza) sarebbe, in sede politica, tendenzialmente inconferente.
E’ di palmare evidenza constatare che dal 25 Aprile 1945 sono trascorsi 71 anni. Tuttavia è proprio questo il punto che sembra sfuggire: anche a coloro che, partigiani o meno, si oppongono alla posizione ufficiale dell’ANPI.
Quelli che si dicono partigiani, con poche eccezioni, non sono più I Partigiani. Perciò sono, evidentemente, altro da quello che dicono di essere. Non combattono: preservano. Non sono Soldati, sono custodi. Il rischio non é sottovalutare o sopravvalutare i partigiani nel 2016; ma fraintendere la ragioni per cui sono ancora una forza politicamente attiva. O, che è lo stesso, la ragione, storiografica e istituzionale, per cui il loro essere custodi mantiene un suo non secondario rilievo politico. Probabilmente é una custodia di tipo inibitorio. Alcuni esempi di domande da non porsi, e oggetto di tale custodia.
Quante Resistenze ci furono? Se ce ne fu più d’una, quanto è estesa l’ambiguità della formula “Repubblica fondata sulla Resistenza”, che invece una sola ne postula? E dell’altra, connessa, per cui “la democrazia si risolve nell’antifascismo”? Perché dopo l’89, dopo l’apertura degli Archivi di Mosca, é ancora faticoso (come minimo) negare l’univocità di quella equivalenza, e affermare la prevalente legittimità dell’anticomunismo democratico? Perché la “Svolta di Salerno”, che data Marzo 1944, é, ancora oggi, tema politico rilevantissimo in sede storiografica? Quali sono i rapporti fra custodia storiografica e controllo politico “evolutivo” o “costituzionale”? A quest’ultimo proposito, c’è, per es., un nesso fra la “custodia” dell’ANPI e le recenti letture “investigative” e “giudiziarie” dell’art. 3/2 Cost. (uguaglianza cd “sostanziale”) avanzate dal Procuratore Generale di Palermo, Roberto Scarpinato? In un tempo che si dice giustamente sensibile alla Memoria, una “custodia negativa” può perseguire istituzionalmente “una” smemoratezza? O una memoria parziale? E così via.
Sono note le ragioni per cui quelle formule sorsero e si affermarono. Storicamente l’Italia aveva conosciuto l’antifascismo come forma principale, se non esclusiva, di resistenza al totalitarismo.
Secondo Michele Salvati, economista e tra i fondatori del PD, “l’Italia sarebbe una Repubblica fondata su una “asimmetria tra fascismo e comunismo -il primo è nemico reale, il secondo alleato”, e solo “una consapevole e paziente operazione politica e culturale” potrebbe porvi rimedio. (Corriere della Sera, 19 dicembre 2003).
Il perno di questa asimmetria è la Resistenza “una e indivisibile”, a guida essenzialmente comunista; ne viene, a cascata, un’unica interpretazione del suo significato politico: non vicenda storica conclusa e, solo in questo modo, reale fondamento di un nuovo edificio; ma progetto appena abbozzato, in attesa di uno svolgimento più o meno perenne.
La pietra d’inciampo, diciamo, è, come accennavo, la c.d. “Svolta di Salerno”. Arriva Togliatti e annuncia che in Italia non si fa la rivoluzione bolscevica; giù le armi, andiamo in Parlamento. Si è sempre detto: scelta voluta, se non imposta, da Togliatti a l’U.R.S.S. Da lì sarebbe derivata l’autonomia originaria del comunismo italiano rispetto a quello sovietico; la sua natura “progressiva”, democratica. Dal Rinascimento al Secondo Risorgimento (la Resistenza “una”), passando per il Primo Risorgimento: modestia a parte. Niente Russia, solo Italia.
Ma, si potrebbe chiedere: se anche fosse una pietra d’inciampo, perché parlarne ancora oggi, della “Svolta di Salerno”? Forse perché, se cedesse il presidio storiografico su questo centralissimo episodio, se si potesse affermare che il P.c.i. agì in esecuzione degli ordini di Mosca, ne risentirebbe un intero edificio interpretativo e, a quello connesso, il suo cascame politico. E di potere. Ne verrebbero meno una “legittimazione” e un’accreditamento generali, e pretesamente indiscutibili. Si dirà che questo si è già detto: propaganda politica del dopoguerra. Vero. Solo che ora, diciamo da poco più di una ventina d’anni, ci sono i documenti. Un subisso di documenti, provenienti dagli archivi ex sovietici.
Uno dei più noti storici della sinistra americana, Eugene Genovese, studioso di storia della schiavitù, ha scritto che la sinistra marxista è sfuggita a una domanda. In un famoso saggio intitolato, appunto The Question (in Dissent, estate 1994, p. 374), si è pertanto interrogato sullo “…scarso interesse dimostrato dagli studiosi del nostro schieramento per una seria rifllessione sul collasso dei paesi socialisti che abbiamo appoggiato fino all’ultimo e su qualunque responsabilità personale possiamo avere avuto”. La responsabilità personale di ciascuno: storica, morale. Questo è il punto.
Ricordiamo qual è lo “sfondo” di simili “domande”. E’ l’Olodomor, il genocidio ucraino per fame; la “collettivizzazione” forzata dell’agricoltura con lo sterminio dei kulaki (coltivatori diretti, con non più di dieci ettari di terreno, non sempre interamente coltivabile); le c.d. Purghe, cioè l’eccidio processualpenale di massa: essenza non solo dello stalinismo, ma inevitabilmente, dell’intero comunismo, com’è stato rilevato. Perché sempre protetto da una “omertà rivoluzionaria” che animò tutti; dentro e fuori i Paesi di “democrazia popolare” o “sovietica”, prima , durante e dopo gli anni ’30 (I Processi di Mosca, Pier Luigi Contessi, a cura di; Il Mulino, 1970); e che si protrasse, con articolazioni solo quantitative, fino all’89. In totale, le stime si aggirano sugli 80 milioni di morti (per es. Enzo Biagi, sostiene questa cifra, Lubianka, BUR, 1991).
Per la verità, in Italia, l’interesse non è stato scarso: è stato un interesse contrario, con qualche lodevole eccezione. Anzi, tanto ci si è resi conto della centralità, storica e, qui, subito politica, della questione che, a quasi vent’anni dall’89, si è provato il tutto per tutto: a quegli storici (fra gli altri, Elena Aga Rossi, Victor Zaslavsky, Togliatti e Stalin, il Mulino, 2007) che hanno documentalmente provato la piena dipendenza della dirigenza comunista da Stalin, si è dato dei falsari. Nessuna interpretazione nuova era possibile: perciò l’unica via era di negare il “visto” scientifico alla scoperta. I documenti, però, sono stati subito accreditati in ogni sede di ricerca del mondo. Allora, obtorto collo, se ne è dovuta riconoscere l’autenticità, ma buttandola in caciara storiografica: sì, ma bisogna inquadrare, bisogna valutare il contesto, e via così. L’accusa di falsità, ritrattata come non fosse mai stata. Stile bronzeo.
L’oggetto della “custodia partigiana”, ancora oggi, è, dunque, un mito: che però ha avuto ed ha grande valore politico. Il mito del “progetto incompiuto”; del valore futuro della Resistenza “una”, e unicamente legittimante; dell’antifascismo retorico in luogo di quello militare e storico.
Tre, i maggiori legati “futuribili” di questa eredità: il primo è l’antiamericanismo, col suo quasi sinonimo, l’antiliberismo; il secondo è “l’antiriformismo viscerale”; il terzo è l’avanguardismo di “pochi che sanno”, costretti a guidare i “molti che non vedono”.
Una vistosa sintesi di questo pensiero è la ormai nota tesi della “magistratura costituzionale” (avanguardia) che, secondo il Procuratore Scarpinato, dovrebbe “vigilare” sull’adempimento della “promessa/scommessa” implicata dalla Costituzione del 1948” (data fissa, e antiriformismo), al fine di impedire che “i principi-cardine del liberismo” conducano ad un “declassamento” del Parlamento.
Ora, in parte, si potrebbe persino convenire, a patto di un’ammissione preliminare, però: il Parlamento italiano, negli ultimi quasi venticinque anni, è stato progressivamente “declassato” non da anonimi “fenomeni di portata storica e mondiale” che, al più, possono aver favorito certe azioni; ma lo è stato a partire dalle riforme elettorali antiproporzionalistiche votate durante Mani Pulite; proseguendo con la soppressione dell’immunità parlamentare; con la sistematica denigrazione, fino e oltre l’insulto sistematico, di tutto ciò che fosse “politico”, cioè parlamentare. Il “Parlamento delegittimato”, perchè “Parlamento degli inquisiti”, è la filigrana attossicante della seconda Repubblica. In Italia, Maastricht e la fine della politica democratica in favore di istanze sovranazionali non elettive, e più o meno “liberiste”, nacquero sotto gli auspici armati delle Procure della Repubblica. Non per nulla, ancora nel 2003 (Micromega, 2003/1), gli allora Colleghi Scarpinato e Antonio Ingroia scrivevano che, per meglio condurre la “lotta alla mafia”, si sarebbe dovuto “ ‘sospendere’ autoritativamente la democrazia elettiva aritmetica”, e ricorrere ad un “…commissariamento europeo nei confronti degli stati membri i cui vertici dovessero risultare in collegamento diretto o indiretto con la criminalità organizzata”. Pertanto, non ci sono anonimi, nel “declassamento” democratico dell’Italia.
La polemica fra il Ministro Boschi e l’ANPI, dunque, è rilevantissima: non solo perché non riguarda i morti, ma i vivi e i nascituri di questo Paese; ma anche perché potrebbe indurre a rivedere “una certa idea dell’Italia”, ambigua e in evidente, quanto incalzante, fase trasformistica.
E ora, una postilla finale, a proposito degli archivi moscoviti.
Pochi giorni dopo quello in cui sarebbe saltato in aria a Capaci, Giovanni Falcone si sarebbe dovuto recare a Mosca per incontrarsi col Procuratore Generale di Mosca Stepankov. Questi cercava circa 700 miliardi di rubli spariti dalle casse del PCUS (il Rublo il giorno della strage quotava 1480 contro la Lira, il Dollaro 1220) e stava valutando l’ipotesi che i “partiti fratelli” potessero avere avuto un qualche ruolo nella “sparizione del tesoro”. Soprattutto, voleva approfondire il sospetto che ci fosse un coordinamento fra Cosa Nostra e associazioni criminali russe (queste, caduti i muri, in effetti facevano capo a ex uomini di apparato che stavano sbranando il ricco cadavere sovietico).
Sappiamo, lo abbiamo più volte ricordato, che sulla strage di Capaci si sono poste varie “ipotesi sistemiche”. Questa, fra le ipotesi sistemiche, era la più sistemica di tutte. Falcone aveva ritenuto “interessanti” le proposte investigative di Stepankov; non essendo operativo, ne parlò anche con Borsellino. Ma Falcone era notoriamente un perdigiorno che amava inseguire le farfalle e non i flussi di denaro. Un guitto, come scriveva su Repubblica Sandro Viola. Come deve esserlo il procuratore Stepankov, che pure sull’argomento ha scritto un libro (Il viaggio di Falcone a Mosca, Mondadori, 2015). Perciò il silenzio assoluto fedelmente osservato in più di vent’anni su questo versante è pienamente giustificato. Come anche il dileggio (magari del tipo di quello sul “falso” della Svolta di Salerno) verso ogni, anche solo timida, perplessità.
Però, visto che nel processo c.d. stato-mafia si è potuti andare fino a Johannesburg per acquisire la testimonianza di un Generale (Maletti); a Roma per assumere quella di un Presidente della Repubblica in carica (Napolitano), e ora, di nuovo, anche quella di un Presidente della Repubblica già in carica (Ciampi); ecco, tutto considerato, in vent’anni e più, il tempo per fare un giretto pure a Mosca, e interloquire con uno straccio di Procuratore ex sovietico, forse lo si poteva trovare. Per sincerarci, come senz’altro è, che fossero tutte “falsità”.