A corrente alternata, ma con sostanziale continuità, a cominciare dall’inchiesta “Sistemi criminali”, aperta da Giancarlo Caselli a ridosso del suo insediamento quale Procuratore della Repubblica di Palermo, negli ultimi venti e più anni un’ipotesi ha aleggiato, e forse tutt’ora aleggia, sulla strage di Capaci e su quella di Via D’Amelio: che non siano state solo crimini di Mafia, e che su di esse si siano spese losche quanto altolocate convergenze.
Da allora si cerca una sentenza che queste ipotesi avvalori. E, da allora, la ricerca risulta vana. In questa ricerca si sono spesi a turno, e quasi ossessivamente, alcuni gruppi editoriali. Nuovi e meno nuovi. Con varie propaggini e coordinazioni anche in ambito televisivo.
Ora, non è che le ipotesi storico-critiche non siano legittime. Anzi. Solo che sono cosa diversa dalle imputazioni. Passare direttamente dalle une alle altre è pretenzioso e, soprattutto, inutile.
Sicchè, a proposito dell’odierno anniversario della strage di Capaci, si possono fare delle considerazioni. Solo per ricordare alcuni “corsi e ricorsi storici”, e per nutrire così, come si diceva un tempo, lo spirito critico.
Leoluca Orlando, Sindaco di Palermo. Nel corso di una “storica” diretta televisiva, accusò Falcone di insabbiare le indagini sui delitti Mattarella, La Torre e altri, vale a dire sui c.d. delitti politico-mafiosi. La diretta era di Santoro. L’incauta invettiva si alimentava del rancore suscitato in quegli ambiti dall’incriminazione per calunnia mossa da Falcone a carico di un collaboratore che aveva accusato Lima di essere mafioso. Anziché prendere atto delle decisione dell’autorità giudiziaria (cioè di Falcone) si preferì l’insinuazione.
Le cose peggiorarono quando Egli decise, accettando la proposta del socialista Claudio Martelli, allora ministro della Giustizia, di assumere il ruolo di Direttore generale degli Affari Penali. Nel Gennaio del 1992, quattro mesi prima di essere ucciso, La Repubblica lo accusò, con un articolo dal titolo “Falcone, che peccato” a firma di Sandro Viola, non proprio l’usciere di Piazza Indipendenza, di “febbre da presenzialismo”; di essere perciò dominato “dal più indecente dei vizi nazionali” (cioè il presenzialismo); aggiungendo irridente che, al punto in cui era giunto spinto da questo terribile vizio, forse Falcone “non potrebbe placarsi con un paio di interviste l’anno”; e che, anche dalle pagine del suo “Cose di Cosa Nostra”, si avvertiva “l’eruzione di una vanità…come se ne colgono nelle interviste del ministro De Michelis e dei guitti televisivi”; concludendo indignata (attributo della Casa) che “nessun paese civile ha mai lasciato che si confondessero la magistratura e l’attività pubblicistica”. Così Repubblica. Questa è un opinione, per carità. Magari “un filino” infelice, ma è un’opinione.
Ma non solo il Gruppo-Espresso-Repubblica.
Il 12 marzo 1992, l’Unità pubblica un editoriale a quattro colonne “Falcone superprocuratore? Non può farlo, vi dico perchè”. Firma Alessandro Pizzorusso, che scrive: “Il principale collaboratore del ministro non dà più garanzie di indipendenza…. se nella vicenda attuale le sue qualità professionali non dovessero essere premiate come meritano, ciò non sarebbe dovuto solo alla malvagità del fato o a subdole iniziative dei suoi avversari”. Pizzorusso non era un semplice magistrato , in quel periodo, ma il membro laico, eletto dal Pci, del Consiglio Superiore della Magistratura. L’articolo non era isolato: ma esprimeva un’azione corale e convinta, diciamo così. Lo scopo era isolare, non solo politicamente, Falcone, ed impedirgli di essere designato come c.d. Superprocuratore.
Corrado Augias, a Falcone in studio disse: “Non voglio dire che lei ci abbia deluso, ma ultimamente, da quando è al Ministero, è un po’ cambiato… Lei nel suo libro, scandaloso, arriva a dire delle cose gravi… lei scrive testualmente che la mafia ha sostituito lo Stato in Sicilia…”.
Il 2 dicembre 1991 l’intera magistratura aveva scioperato: “contro Cossiga, Falcone e la sua superprocura”, scrisse Liana Milella. Giacomo Conte, che assunse funzioni anche di Giudice Istruttore nello stesso Ufficio di Falcone e Borsellino, il 6 giugno 1991 definì il progetto della superprocura “quanto di più deleterio sia stato pensato in tempi recenti”. Nel notiziario trimestrale di Magistratura democratica, nel dicembre 1991, la nuova Direzione Nazionale Antimafia veniva invece definita come “una grave lesione alle prerogative del Parlamento e all’indipendenza della magistratura”, dunque si prospettava un “disegno di ristrutturazione neoautoritaria”.
E molti altri, de cuyo nombre no quiero acordarme.
Non è questo però il punto. Nè certi aggettivi, così corrivamente ricorrenti.
Persino Paolo Borsellino, in una famosa lettera, firmata anche da numerosi altri Colleghi (fra i quali Caselli e Caponnetto) sottoscrisse una critica: “Ci accomuna la convinzione che lo strumento proposto sia inadeguato, pericoloso e controproducente… fonte di inevitabili conflitti e incertezze”.
Il punto è che se tutto fosse stato pulito, come fu per Borsellino, per esempio, se quelle opinioni su Falcone fossero state limpide si potrebbe oggi forse ridiscuterne, oppure no, chi lo sa. Ma una circostanza rende opache quelle uscite. L’articolo di Repubblica è stato cancellato dagli archivi di “Repubblica”, come ogni altro di quel periodo che si poneva in termini analoghi su Falcone. Gli altri, sono reperibili, ma con difficoltà.
Inoltre, e soprattutto, le critiche così cariche e verbose non hanno mai condotto ad una memoria costante di quei conflitti. Ad una seria valutazione delle reali ragioni di quell’animosità. Che erano di ordine politico-ideologico; di potere. Falcone è con Craxi: questo, in compendio, il senso di questa lunga teoria di anatemi. Qualche mese dopo, sarebbe scoppiata Mani Pulite, e Craxi ne sarebbe stato il maggior bersaglio.
In questi anni, qua e là, due righe, giusto per mettere a posto gli archivi, e poter sostenere, in contesti distratti e superficiali, di aver “riconosciuto l’errore”; ma un adeguato riconoscimento dell’astiosità ideologica, del metodo maledicente o ostile, quello mai.
Forse perchè, quello stesso metodo, sarebbe stato utile negli anni a venire.
Da qualche tempo si avverte un certo “garantismo di ritorno”, infìdo e pernicioso, nella misura in cui confida nell’altrui dabbenaggine. Perciò la memoria abbia anche un effetto diserbante.
Si coltiva l’oblio per raccogliere potere. Lo fanno in molti.
Pure questa è un’ipotesi, naturalmente.