Nell’intervista rilasciata in settimana al Corriere della Sera, Massimo D’Alema fa la disamina della situazione mediorientale per poi avvertire sui limiti della nostra politica estera. Di sistema internazionale baffino ne mastica sin da quando dirigeva i giovani comunisti e operava nel Cigri, Comitato italiano giovanile per le relazioni internazionali, meritando successivamente la carica di ministro degli Esteri: qualcosa dovrebbe capirne. Al di là delle, peraltro garbate e ragionate, critiche del “protorottamato” da Renzi, il rilevamento dei limiti della nostra politica estera ci sta tutto. In molti ci si chiede se non risultino autolesivi i fendenti enfatici che il primo ministro mena a destra e manca (l’ultimo, “non perderemo la faccia per due tubi”, riferito a Putin e al gasdotto Nord2) ritenendo forse, e sbaglierebbe!, che valgano nella politica internazionale il presenzialismo e il comunicazionismo esasperato, che tanta parte hanno avuto nella sua ascesa.
La politica estera di un paese è la tessitura continua di ragioni per migliorare e accrescere le buone relazioni con amici e alleati, e per smussare quanto più possibile il confronto con i nemici salvo dover ricorrere ad atti ostili di difesa. Nel meccanismo, stile ed etichetta contano molto, così come la discrezione, il saper attendere in silenzio, studiare e osservare. Non casualmente quando di qualcuno diciamo che è “diplomatico” sottintendiamo che non ami la gestualità forte. Nei testi di politica internazionale è scritto che nel negoziato “va veloce chi accetta di progredire lentamente”.
Storicamente, finita la roboante declamatoria del governo fascista, la nostra politica estera ha sempre seguito tali regole comportamentali. Nella temperie della guerra fredda dove evidentemente stavamo da una certa parte, abbiamo goduto di governi che, grazie all’appartenenza dei leader alle grandi famiglie politiche globali delle Internazionali democristiana e socialista, tutelavano i nostri interessi nazionali e, in alcune occasioni (si pensi all’azione di Mattei verso i paesi produttori, di La Pira nel conflitto vietnamita, all’apertura di Nenni alla Cina di Mao, al buon rapporto con i sovietici) esprimevano esperienze di grande interesse storico. Abbiamo espresso un De Gasperi e uno Spinelli, siamo stati tra i fondatori delle prime comunità europee e fattore strategico di euro e Unione con un Craxi che seppe mettere la Thatcher sull’attenti.
Quel percorso, che fosse gestito da democristiani, socialisti e alla fine anche da postcomunisti (il citato D’Alema) e postfascisti (Fini col governo Berlusconi), non si basava né sulla spettacolarizzazione né sul personalismo. Al contrario puntava a creare e gestire consenso verso una potenza media (all’epoca; oggi siamo scesi di rango), consapevole dei limiti ma anche delle possibilità. Poi, lo ricorda l’intervista al Corriere, vennero i Tremonti e i Berlusconi dei pugni sul tavolo a Bruxelles, e sappiamo tutti come finimmo noi (ultraindebitati e alla vigilia di un crollo alla greca con annessa troika a gestire il nostro sistema economico) e loro (licenziati in tronco).
E’ certo il primo ministro che esibire muscoli (che non abbiamo) sia utile al paese che governa? In particolare che sia utile nel rapporto con l’Ue e la sua Commissione? Venerdì ha rimediato il rabbuffo del presidente Jean Claude Junker che gli ha chiesto di cessare di “offendere in ogni occasione” l’istituzione centrale dell’Ue ricordandogli che la flessibilità, sulla quale Renzi sta duellando, è innovazione sua non della presidenza italiana del Consiglio dei ministri! Agli effetti annuncio del primo ministro, il navigato Juncker ha opposto argomenti concreti, come quello sulle critiche italiane al piano da 3 miliardi (ne metteremmo 300 milioni) da mandare in Turchia: “..sono soldi destinati ai rifugiati siriani in Turchia … per aiutare chi è in fuga dalla guerra”.
A febbraio Junker sarà a Roma per tentare di capire meglio la strategia europea di Renzi. Il quale intanto fa sapere che, come capo del partito che, a sinistra, ha preso più voti in Europa, merita più ascolto. Il Di Pietro di turno chiederebbe: “ma che c’azzecca?”. Detto al democristiano eletto con una manciata di consensi nel piccolissimo granducato di Lussemburgo, suona provocatorio.
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