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October 14, 2015
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October 14, 2015
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Nel primo dibattito democratico, a vincere è l’immagine del partito

Marcello CristobyMarcello Cristo
Time: 5 mins read

Una considerazione che verrebbe da fare dopo il primo dibattito televisivo dei candidati democratici per le elezioni presidenziali americane del prossimo anno è che il confronto tra i cinque partecipanti non ha mutato più di tanto gli equilibri e gli indici di gradimento che esistono al momento tra i maggiori contendenti.

Salvo una possibile discesa in campo da parte del vicepresidente Joe Biden, l'ambito del confronto resta strettamente circoscritto ad Hillary Clinton e Bernie Sanders, con i due aspiranti più marginali, Jim Webb e Lincoln Chafee decisamente tagliati fuori dalla competizione.

Il quinto candidato, Martin O'Malley, si è distinto positivamente tra il gruppo ma la possibilità che alla fine l'ex governatore dello stato del Maryland possa prevalere e conquistare la nomina democratica resta estremamente remota.

Un altro elemento da mettere in evidenza è stato un certo tono di civile "ecumenismo" da parte dei partecipanti che ha rappresentato un netto contrasto rispetto a quello mostrato nel corso dei dibattiti repubblicani.

I cinque democratici hanno mantenuto un contegno fondamentalmente rispettoso, spesso arrivando persino ad annuire in segno di assenso alle dichiarazioni dei "rivali".

Il moderatore, il giornalista della CNN Anderson Cooper, ha iniziato il confronto andando dritto alla giugulare prendendo di mira, con la prima raffica di domande, quelli che sono percepiti dalla stampa e dall'opinione pubblica come i maggiori punti deboli dei vari candidati.

Hillary Clinton quindi è stata costretta subito a difendersi dall'accusa di opportunismo politico che l'avrebbe spinta a cambiare ripetutamente posizione rispetto a questioni come i matrimoni gay, i rimpatri forzati degli immigrati illegali e il recente accordo commerciale tra gli Stati Uniti e i paesi dell'area pacifica (TTP).

Al senatore Bernie Sanders invece, é stata mossa l'accusa di ineleggibilità legata all'uso temerario della parola "socialista" che lui stesso ha utilizzato ripetutamente nel corso della sua carriera per definire la sua filosofia politica. Un termine questo, che per gli americani, che non hanno chiara la distinzione tra il Socialismo vero e proprio e la semplice social-democrazia di stampo europeo, evoca inesorabilmente lo spettro di gulag ed espropri proletari.

Proprio in relazione a questo, il senatore del Vermont ha commesso probabilmente un passo falso, quando il moderatore, cogliendo l'opportunità di farlo venire allo scoperto, gli ha chiesto se si considerasse un "capitalista", una domanda alla quale Sanders, per non dare adito alle inevitabili critiche, avrebbe dovuto rispondere con un netto "si". Il senatore del Vermont invece si è avventurato in un territorio pericoloso chiamando in causa le disuguaglianze sociali e gli altri "effetti collaterali" del capitalismo a briglia sciolta di stampo americano.

Sanders ha continuato a giocare sulla difensiva quando il dibattito ha toccato l'argomento del diritto al porto d'armi, un tema che è sempre tragicamente d'attualità in America. Mentre tutti i candidati, con l'eccezione di Jim Webb, hanno dichiarato chiaramente la loro intenzione di introdurre normative più severe sull'acquisizione e sul possesso di armi da fuoco, Bernie ha cercato di restare nel vago tentando di sviare il discorso sulla necessità di fornire assistenza psichiatrica a coloro che ne hanno bisogno nel tentativo di evitare nuove stragi da parte di squilibrati. Il senatore infatti ha dovuto tenere in considerazione l'atteggiamento su questo argomento della popolazione del suo stato di provenienza: il Vermont, una regione prevalentemente rurale nella quale ogni tentativo di controllo e regolamentazione delle armi è visto con ostilità e diffidenza.

A dispetto di questi passi falsi tuttavia, Bernie Sanders ha confermato, attraverso questo dibattito, l'attrazione che riesce ad esercitare su quella porzione più giovane e progressista dell'elettorato democratico facendo trasparire chiaramente quella passione e quell'entusiasmo che caratterizzano il suo impegno politico. La foga e la coerenza che è riuscito a trasmettere con i suoi interventi ha costituito ancora una volta il suo punto di forza anche se il senatore deve ancora dimostrare di avere non solo la passione ma l'indole necessaria per arrivare alla Casa Bianca, soprattutto in politica estera.

Proprio su questo invece, Hillary Clinton ha potuto fare sfoggio della sua esperienza e delle sue credenziali come Segretario di Stato nell'amministrazione Obama e ha reagito con decisione alle prevedibili accuse di aver votato in favore dell'invasione dell'Irak durante il suo incarico al Senato. L'ex First Lady ha cercato di dirottare gli attacchi sui tentativi da parte dell'amministrazione Bush di manipolare l'opinione pubblica internazionale e ha risposto per le rime alle accuse di inaffidabilità rivoltele da Martin O'Malley facendo notare che, a dispetto di tutto, la sua esperienza politica le ha consentito di guadagnarsi la fiducia del presidente Obama che le ha affidato un incarico fondamentale come quello di Segretario di Stato.

Alla fine i ruoli dei due maggiori candidati hanno tenuto fede alle attese della vigilia con Bernie Sanders che si è confermato come elemento di rottura con il passato, di disgregazione dei vecchi meccanismi politici e di rifondazione sulla base di nuovi principi e di un nuovo patto di solidarietà sociale.

Hillary Clinton, che si può definire probabilmente come la "vincitrice" del dibattito, si è riproposta invece in termini di continuità con il passato, come l'esponente di quell'incrementalismo moderato che, nel breve periodo, lascia sicuramente più freddi gli elettori democratici delle primarie ma che ha senza dubbio maggiori possibilità di affermarsi a novembre del 2016 durante le elezioni generali.

Il dilemma per l'elettorato progressista quindi resta più o meno lo stesso di quello che ha preceduto il dibattito: scegliere un candidato "entusiasmante", di minore esperienza ma dotato di un più ampio orizzonte ideologico e fautore di un processo di rifondazione o optare invece per la solidità, l'esperienza e l'eleggibilità di Hillary Clinton che avrebbe, come valore aggiunto, anche l'opportunità di scrivere un'altra pagina di storia politica americana diventando il primo presidente donna degli Stati Uniti? La risposta alla fine potrebbe venire da un altro fattore fondamentale: quello dell'affluenza alle urne per le primarie. Sanders infatti resta il candidato dei giovani che dispongono di abbondanti dosi di entusiasmo ma non di altrettanta disciplina quando giunge il momento di far sentire la propria voce.

La Clinton invece fa affidamento su una porzione più anziana e moderata dell'elettorato che tende ad esercitare più efficacemente il proprio diritto al voto.

A fare la differenza alla fine, sarà la capacità di entrambi i candidati di attrarre il voto delle minoranze che, svolgono un ruolo cruciale nelle dinamiche politiche democratiche e, anche su questo, la Clinton sembra avere un certo vantaggio.

Al di la di tutto questo comunque, molto probabilmente la differenza tra i toni retorici dei due candidati potrebbe essere più marcata delle loro effettive differenze politiche e questo, mette in risalto un altro fattore del dibattito di martedì: la vittoria d'immagine del Partito Democratico nel suo insieme.

Mentre l'opposizione repubblicana appare allo sfascio, i democratici sono riusciti a comunicare all'elettorato una parvenza di solidarietà, di maturità e di serietà attraverso i toni del dibattito stesso e la sua ricchezza sostantiva.

Se alla fine il confronto tra i candidati sembra aver cambiato solo di poco lo status-quo, il più ampio progetto di promuovere il brand democratico nella sua interezza sembra essere emerso vittorioso al di la delle piattaforme individuali dei singoli partecipanti.

 

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Marcello Cristo

Marcello Cristo

Sono nato e cresciuto a Napoli dove, nella tradizione magno-greca della mia città, mi sono laureato in Filosofia. Vivo negli Stati Uniti con la mia famiglia da oltre vent'anni facendo la spola tra New York e la California. Dall’America, ho iniziato a collaborare con pubblicazioni italiane come Il Giornale di Indro Montanelli e La Gazzetta dello Sport di Candido Cannavò e poi con il quotidiano in lingua italiana degli Stati Uniti America Oggi per il quale ho lavorato come editor, opinionista e corrispondente dalla California. Nei ritagli di tempo, sto tentando disperatamente di insegnare ai miei figli il napoletano.

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