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August 31, 2015
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August 31, 2015
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Sicilia: 4 milioni e mezzo di cittadini fanno a meno di Regione e Stato

Giulio AmbrosettibyGiulio Ambrosetti
Time: 10 mins read

In quante Sicilie vivono, oggi, i siciliani? La domanda è tutt’altro che retorica. Ed è quasi spontaneo chiederselo a giudicare da una notizia diffusa in questi ultimi due giorni da quotidiani cartacei, on line e Tg. Ci riferiamo al boom di turisti che, tra luglio e agosto, hanno letteralmente invaso le spiagge della nostra Isola. Certo, al successo di questa estate, almeno in termini di presenze turistiche, ha contribuito la strage che ha praticamente bloccato la stagione estiva in Tunisia. Non dobbiamo dimenticare che negli ultimi anni sono state le spiagge, gli hotel e i porti turistici tunisini a fare grandi numeri. Ma l’attentato di inizio estate ha convinto i tanti turisti a mettere da parte la Tunisia per cercare altre mete. E tra queste hanno scelto la Sicilia.

Detto questo, sarebbe ingeneroso non riconoscere meriti ai titolari delle strutture ricettive che operano in Sicilia. Imprenditori che non sono stati aiutati né dallo Stato né, tantomeno, dalla Regione siciliana. Insieme, Stato e Regione, non aiutano l’imprenditoria siciliana. Basti pensare che nella nostra Isola IRPEF, IRAP, TASI e TARI sono tra le più alte d’Italia. La Regione, da parte sua, ha fatto di più, incrementando i balzelli agli stabilimenti balneari. Eppure, nonostante un’imposizione fiscale ormai insostenibile, gli imprenditori siciliani di questo settore sono riusciti ad avere successo. La dimostrazione che in Sicilia si fa impresa avendo contro Stato e Regione siciliana.

L’esempio degli operatori turistici non è l’unico. Oggi, soprattutto leggendo i ‘numeri’ devastanti della

spiaggia calamosche

Un’immagine della spiaggia di Calamosche, dalle parti di Vendicari

Regione siciliana di Rosario Crocetta, siamo portati a pensare che tutta la Sicilia stia andando a fondo. E in buona parte è così. C’è la disoccupazione giovanile al 70 per cento. Ci sono gli sbarchi di immigrati che non danno tregua (i cui costi che dovrebbero essere a carico dello Stato e dell’Unione Europea, sono in parte cospicua a carico dei contribuenti siciliani: basti pensare ai 50 milioni di Euro stanziati dalla Regione negli ultimi due anni per i minori non accompagnati arrivati dai barconi e dalle risorse approntate da Comuni e strutture sanitarie regionali). E ci sono anche le intelligenze che lasciano la nostra Isola per mancanza di opportunità di lavoro (questo dopo che le famiglie siciliane hanno speso i soldi per fare studiare i figli: investimenti con benefici regalati ad altre regioni italiane ad altri Paesi del mondo). Ma accanto a questi e ad altri problemi ci sono anche segnali di risveglio. Si tratta di imprenditori – giovani, ma non soltanto giovani – che vanno avanti a prescindere dai problemi creati dai governi nazionale e regionale.

“Fa più rumore un albero che cade che un’intera foresta che cresce”, recita un vecchio adagio cinese. Certo, in Sicilia di alberi ne cadono tanti. Forse troppi. Ma accanto agli alberi che cadono, oltre ai migliaia di giovani che non studiano, non lavorano e non si impegnano in nulla, oltre ai siciliani che, come già ricordato, fanno le valigie per tentare la fortuna in altre parti del mondo, ci sono anche siciliani che si rimboccano le maniche. Li troviamo nella moda, nelle attività culturali, nell’artigianato, nell’agricoltura.

La realtà di oggi ci consegna tante Sicilie, insomma. C’è la Sicilia della politica classica, fatta dai partiti tradizionali, che è un vero e proprio disastro. E’ la Sicilia che ruota attorno alla Regione siciliana e, per quel poco che rappresenta, attorno al governo nazionale. Benché fallimentare, è la Sicilia che finisce sui giornali. Rappresentata dal già citato presidente Crocetta, dal governo Renzi e dai suoi uomini e dalle sue donne che orbitano nell’Isola e, in generale, dai disgraziati che dipendono, per vivere, dalla spesa pubblica.

Questa è la Sicilia che sta affondando. Ne fanno parte il Parlamento siciliano, i burocrati della Regione, tutto il personale che fa capo agli enti regionali, i dipendenti delle ex Province e, da circa un quindicennio , anche i quasi 400 Comuni dell’Isola. I Comuni siciliani, fino ai primi anni del 2000, operavano con una certa autonomia. Oggi non è più così. Debbono pagare, ogni mese, circa 24 mila precari. E lo fanno con fondi regionali (anche se negli ultimi due anni con grande fatica, visto che sia lo Stato, sia la Regione hanno drasticamente ridotto i trasferimenti). Di fatto, i Comuni pagano questo personale precario con onerose scoperture bancarie che vengono ripianate (o quasi…) con i trasferimenti della Regione che arrivano sempre in ritardo e, soprattutto, con le tasse e le imposte degli ignari cittadini. I contribuenti siciliani non lo sanno, ma ormai una notevole quota di tasse e imposte comunali non serve per avere in cambio servizi, ma per pagare i precari dei Comuni.

rifiuti

Rifiuti nelle strade della Sicilia

Un altro fattore che ha inguaiato i Comuni siciliani è la raccolta dei rifiuti. I guai sono cominciati con la costituzione degli ATO rifiuti, società per azioni composte dagli stessi Comuni. Una follia clientelare con la quale i sindaci degli anni passati, d’accordo con la politica, hanno effettuato circa 13 mila assunzioni. Impostando la raccolta dei rifiuti sulle discariche. Follie su follie.  

In realtà, fino al 2008, molti Comuni dell’Isola stavano iniziando la raccolta differenziata. Ad Agrigento e dintorni, ad esempio – ma non era il solo caso – la percentuale di raccolta differenziata dei rifiuti superava il 15%. Tutto questo nonostante i governi di Totò Cuffaro, che puntavano a realizzare quattro mega inceneritori di rifiuti. Operazione bloccata non dalla politica, come cerca di far credere qualcuno oggi, ma dalla magistratura europea. Poi è arrivato il governo di Raffaele Lombardo, con gli alleati ‘industriali’ della monnezza. Un governo che aveva interessi diretti nella gestione delle discariche. E la percentuale di raccolta differenziata è scesa al 2-3%. Schema che il governo regionale di Rosario Crocetta ha riproposto, tale e quale, con gli interessi delle discariche ben rappresentanti nella sua Giunta.

Mettendo assieme i tre ultimi governi della Regione – che di fatto hanno tirato dalla propria parte i Comuni – si arriva a un indebitamento degli stessi Comuni siciliani di circa 2 miliardi di Euro solo per la gestione dei rifiuti. A questi si debbono aggiungere i circa 250 milioni di euro per il pagamento dei 24 mila precari degli stessi Comuni.   

Nel complesso, su una popolazione di oltre 5 milioni di abitanti, non sono più di 500 mila i soggetti che vivono a carico di Regione, Comuni ed ex Province. Oggi parleremo di questi soggetti. Di fatto, gli altri 4 milioni e mezzo di siciliani pagano le tasse (quando hanno i soldi per pagarle, vista la dilagante povertà), per avere in cambio dall’istituzione Regione e, in generale, dalla politica tradizionale solo problemi. E quando parliamo di politica tradizionale ci riferiamo alla Regione, ma anche al governo nazionale. Facciamo due esempi.

Oggi in Sicilia, se i musei, le aree archeologiche e, in generale, i siti culturali venissero gestiti dai Comuni – e ovviamente se venissero utilizzati con professionalità e oculatezza – potrebbero diventare fonte di entrate non indifferenti per gli stessi Comuni. Assistiamo, invece, a casi di musei e siti culturali che – nonostante la gestione che spesso lascia a desiderare da parte della Regione – incassano soldi che invece di sostenere il Comune di riferimento vanno a sostenere una Regione sempre più fallita. Parliamo di centinaia di casi. Siamo davanti a uno dei tanti casi in cui la Regione siciliana è un oggettivo peso per la comunità. Eppure questo sistema deve essere mantenuto in piedi per giustificare la presenza di personale e di società collegate alla Regione che creano solo appesantimenti, guasti e cattiva gestione, togliendo ai Comuni entrate certe. Il tutto in cambio di voti per i partiti politici tradizionali. Questo esempio, più di ogni altro, esemplifica e sintetizza il fallimento della Regione siciliana, che è culturale prima che politico e amministrativo.

Un altro esempio riguarda il governo nazionale. Riaprono le scuole. Da anni i docenti dei licei e, in generale, delle scuole superiori della Sicilia hanno tenuto in piedi, nel bene e nel male, il mondo della scuola. Poi è arrivato il governo Renzi con la riforma della ‘Buona Scuola’. Ebbene, con questa riforma circa 20 mila di questi docenti della Sicilia dovrebbero trasferirsi al Nord Italia. Se i docenti italiani guadagnassero le stesse cifre dei docenti tedeschi sarebbe un fatto normale e anche corretto. In Germania – Paese che fa parte dell’Euro come l’Italia – un docente di licei o di scuole superiori guadagna ogni mese il doppio e forse più di un equivalente docente italiano (come potete leggere qui).

Da qui una domanda: come si fa a obbligare un docente che lavora ormai da 10-15 anni (peraltro guadagnando, in molti casi, meno della metà di un docente tedesco), pena la perdita del lavoro, a cambiare città, trasferendosi al Nord? Come si fa a trasferirsi con mille e 200 euro al mese? Tutto questo con i problemi familiari, se è vero che il 70 per cento di questi docenti che dovrebbe trasferirsi è rappresentato da donne, in maggioranza sposate con figli.

Abbiamo citato questi due esempi – la gestione dei beni culturali e il caso dei docenti di licei e scuole superiori – per mettere in evidenza i danni che la politica tradizionale provoca ai siciliani. Abbiamo parlato di 500 mila siciliani che vivono a carico della spesa pubblica e, di conseguenza, della politica. Ma non vivono tutti bene. Anzi.

In condizioni ordinarie possiamo dire che, di questi 500 mila, circa 50 mila vivono bene, mentre gli altri 450 mila circa vivono di stipendi medio bassi. I circa 80 mila precari della Sicilia (ai già citati 24 mila precari dei Comuni vanno aggiunti quelli delle ex Province e, soprattutto, quelli operano negli uffici regionali) guadagnano, in media, mille-mille e 200 Euro al mese. I tanto vituperati forestali (altri 24 mila soggetti) guadagnano la stessa cifra. Erano un po’ avvantaggiati fino a qualche anno fa, perché nei mesi in cui percepivano la disoccupazione svolgevano un secondo lavoro. Fenomeno che si è contratto con la crisi.

Ancora: dei quasi 19 mila dipendenti regionali, saranno, sì e no, 400, forse 500 (se aggiungiamo gli esterni) a percepire retribuzioni elevate. Poi ce ne saranno altri 4 mila, tra dirigenti e funzionari, a retribuzioni medio alte (medio alte per i tempi che corrono). Quasi tutti gli altri dipendenti regionali vanno avanti con retribuzioni medio basse (mille e 400 euro mensili) e basse (mille-mille e 200 euro mensili).

Lo stesso discorso va esteso ai dipendenti dei Comuni e delle ex Province. Idem per le società partecipate dalla Regione e dai Comuni, dove troviamo dirigenti con mega-stipendi (ci sono casi di oltre 300 mila euro lordi di retribuzione) e poi tutti stipendi medio bassi. Stessa cosa, per esempio, anche per i 13 mila assunti dagli ATO rifiuti: retribuzioni medio alte (o alte) per alcuni dirigenti e stipendi medio bassi per il personale ordinario.  

Per onestà di cronaca va detto che, negli ultimi due anni, anche una parte dei circa 50 mila soggetti che dipendono dalla Regione e che vivono bene hanno subito decurtazioni. I deputati del Parlamento siciliano hanno perso circa 2 mila Euro al mese (ma ‘viaggiano’ sempre su una retribuzione di 16 mila Euro mensili). I tagli non hanno risparmiato i burocrati dello stesso Parlamento siciliano (non ci sono più le mega retribuzioni da 600 mila euro lorde all’anno: il tetto retributivo dei burocrati del Parlamento dell’Isola è pari a 250 mila euro lordi anno al massimo dell’anzianità). Tagli anche per i dipendenti della Regione e, in generale, per tutto il personale.

In questo gruppo di 50 mila ci sono anche i rappresentanti di alcune organizzazioni imprenditoriali mezze fallite. Si tratta di personaggi che, in teoria, sarebbero degli imprenditori, ma che, in pratica, vivono di spesa pubblica in buona parte improduttiva. Li ritroviamo nei consigli di amministrazioni di società, banche, autorità portuali e via continuando. Sono forme di parassitismo pseudo-imprenditoriale. Personaggi che si danno arie da grandi manager o da profondi conoscitori di fatti amministrativi. In realtà, vivono di spesa pubblica e, in prospettiva, contano di mettere le mani sui fondi europei (soprattutto sui fondi per la formazione professionale e per la promozione).

Questo lo scenario. La novità di questo ultimo anno è rappresentata dal fatto che i tagli operati dal governo nazionale (circa 10 miliardi di Euro in meno di un anno e mezzo: questa la cifra che Roma ha tolto dal Bilancio della Regione, direttamente e indirettamente) non consentono più di retribuire i circa 500 mila soggetti che vivono a carico della Regione (e, in generale, della politica).

Tra questi 500 mila soggetti – e questa è una parentesi importante – ci sono anche i medici e, in generale, la sanità siciliana nel suo complesso. Ufficialmente, la sanità siciliana costa 9 miliardi di Euro all’anno (dal 2008 ad oggi è aumentata di oltre un miliardo di Euro). In realtà, costa molto meno. I medici pubblici siciliani hanno la retribuzione bloccata da sei anni, interi reparti degli ospedali sono stati chiusi, idem per tanti Punti nascita (è di questi giorni la polemica per la chiusura di un Punto nascita in un’area interna dell’Agrigentino), i Pronto soccorsi sono nel caos. Dove sta l’imbroglio? Com’è possibile che la spesa sanitaria aumenti e i servizi ai cittadini regrediscano?

Gli imbrogli sono due. Il primo è ordinario e si articola in due aspetti: le ‘operazioni trigonometriche’ sulla spesa farmaceutica e sulle forniture. Degenerazioni ridotte solo in parte perché alimentano la politica. Il secondo imbroglio – molto più grave – sta nel fatto che, in modo truffaldino, ingenti risorse destinate sulla carta alla sanità pubblica siciliana vengono utilizzate per altri settori dell’Amministrazione. Parliamo, in media, di un miliardo di Euro all’anno. Soldi che, in buona parte, almeno fino ad oggi, sono rientrati nel settore della sanità sotto forma di mutui accesi dalla stessa Regione (di fatto, in questo modo, è stata aggirata la legge che, come ha ribadito di recente la Corte Costituzionale, vieta alla pubbliche amministrazioni di contrarre mutui per pagare debiti).

La novità, lo ribadiamo, è che non ci sono più i soldi per pagare 450 mila dei circa 500 mila soggetti che vivono a carico della Regione. I soldi dei 50 mila vengono messi da parte ogni anno, perché altrimenti la ‘macchina’ non potrebbe funzionare. Il dibattito che in questi giorni infiamma i giornali sul fallimento prossimo venturo della Regione non riguarda direttamente 5 milioni e oltre di siciliani. Riguarda direttamente questi 500 mila soggetti e indirettamente gli altri 4 milioni e mezzo di siciliani.

Di fatto, abbiamo 4 milioni e mezzo di siciliani che ricevono solo danni dalla Regione e dallo Stato. Quelli che ancora possono farlo, pagano le tasse per avere in cambio servizi pessimi (basti pensare al delirio della sanità pubblica, con tanti siciliani che, ormai, per curarsi, sono costretti ad emigrare, o ai rifiuti che giacciono non raccolti per le strade). Poi ci sono quelli fuori da tutto: quelli che non studiano, non lavorano e non cercano un lavoro; chi è rimasto disoccupato e altre fasce di disperazione sociale.

Domani proveremo a parlare di questi 4 milioni e mezzo di Siciliani che non sono rappresentati dalla politica tradizionale. Un esempio di Sicilia che riesce a vivere nonostante lo Stato e nonostante la Regione siciliana l'abbiamo già citato: sono gli operatori turistici siciliani. Ma ce ne sono tanti altri. Siciliani che non sono rappresentati dalla Regione siciliana. E nemeno dal governo nazionale. E vanno avanti lo stesso. Di loro, come già accennato, parleremo domani. 

Fine prima puntata – continua    

    

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Giulio Ambrosetti

Giulio Ambrosetti

Sono nato a Palermo, ma mi considero agrigentino. Mio nonno paterno, che adoravo, era nato ad Agrigento. Ho vissuto a Sciacca, la cittadina dei miei genitori. Ho cominciato a scrivere nei giornali nel 1978. Faccio il cronista. Scrivo tutto quello che vedo, che capisco, o m’illudo di capire. Sono cresciuto al quotidiano L’Ora di Palermo, dove sono rimasto fino alla chiusura. L’Ora mi ha lasciato nell’anima il gusto per la libertà che mal si concilia con la Sicilia. Ho scritto per anni dalla Sicilia per America Oggi e adesso per La Voce di New York in totale libertà.

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