“Negli ultimi anni l’assessorato ha finanziato milioni di euro di progetti europei, ma non ho nessuno strumento per controllare a chi vanno questi soldi”. Queste parole Nino Caleca le pronuncia poche settimane dopo il suo insediamento sulla plancia di comando dell’assessorato regionale all’Agricoltura. Avvocato penalista molto noto, una vita nell’ex Pci, collaboratore, nei primi anni ’80 del secolo passato, di Pio La Torre, all’epoca segretario regionale del Pci siciliano che verrà trucidato il 30 aprile del 1982, Nino Caleca viene nominato assessore su indicazione di Lino Leanza, il leader di Sicilia democratica scomparso poco più di un mese fa.
Nei giorni scorsi Nino Caleca ha rassegnato le dimissioni da assessore regionale all’Agricoltura. E l’ha fatto dichiarando, a chiare lettere, che lui con la “vecchia politica” non vuole avere nulla a che spartire. Le sue dimissioni vengono formalizzare nelle stesse ore in cui Giovanni Pistorio viene designato alla guida dell’assessorato regionale alle Autonomia locali al posto di Ettore Leotta. Siccome Pistorio proviene dalla Dc, con successive esperienze nell’Udc di Totò Cuffaro e nel Movimento per l’autonomia di Raffaele Lombardo (entrambi ex presidenti della Regione siciliana ed entrambi condannati per mafia, anche se Lombardo aspetta il pronunciamento del secondo grado di giudizio rispetto ai tre previsti dall’ordinamento italiano), tutti hanno fatto due più due e hanno sentenziato: Caleca si è dimesso perché non vuole stare nel governo della Sicilia con un personaggio – Pistorio – che è stato vicino a Cuffaro e Lombardo (nella foto sotto, a destra, Raffaele Lombardo: foto tratta dal blog di Giuseppe Casarrubea)
Ma le cose stanno proprio così? Noi, per provare a ragionare su queste dimissioni, politicamente ‘pesanti’ come un macigno, oltre a non ignorare la nomina di Pistorio, proviamo a legarle, anche, alle dichiarazioni di Caleca sui fondi europei destinati alla Sicilia che potrebbero essere finiti alla mafia (le parole di Caleca le potete leggere qui). Per un motivo semplice: perché con quelle sue parole pronunciate qualche settimana dopo il suo insediamento l’ormai ex assessore regionale ha toccato un punto nevralgico della politica siciliana. Nell’analisi politica non contano le impressioni, ma i fatti (le impressioni, per inciso, sono pure importanti, ma rimangono tali se non sono suffragate da dati oggettivi). E i fatti dicono che l’assessorato all’Agricoltura e, in generale, la gestione dell’Agricoltura da parte della Regione siciliana ha spesso incrociato la mafia.
Negli anni del secondo dopoguerra, quando l’Autonomia siciliana muoveva i primi passi, il Parlamento siciliano vara la legge di riforma agraria. E’ l’anno 1950. La Sicilia anticipa di 12 anni il Parlamento nazionale (che comunque non varerà mai una riforma agraria, ma solo una legge stralcio, conosciuta come legge Segni, nel 1962). La legge di riforma agraria siciliana, voluta da don Luigi Sturzo, il fondatore del Cattolicesimo sociale, e dai suoi allievi dovrebbe aggredire i latifondi siciliani. La legge porta la firma del deputato del Parlamento siciliano Silvio Milazzo, l’uomo politico democristiano che circa dieci anni dopo darà vita a un governo regionale ribelle, fase politica convulsa passata alla storia come ‘Milazzismo’.
La legge regionale di riforma agraria verrà applicata tra luci e ombre. Con la mafia mobilitata per affossarla. La riforma agraria, benché difesa da una parte della Dc, dal Pci e dal Psi, avrà tutto sommato la peggio. Perché la mafia, allora, era fortissima. E dai ‘Palazzi’ della politica romana e siciliana provvedeva a sabotarla. Tanti dirigenti della sinistra dell’Isola, comunista e socialista, perderanno la vita nelle lotte sociali in favore dei contadini. Non mancavano voci dissidenti all’interno della stessa sinistra siciliana. Come quella del filosofo marxista Mario Mineo che, sintetizzando al massimo, considerava il fallimento della riforma agraria come la risultante logica di un’Autonomia siciliana impostata male. Ma questa è un’altra storia.
Quello che oggi ci preme ricordare è il peso che la mafia ha avuto nella gestione dei fondi regionali destinati all’agricoltura. Basti pensare che nei primi anni ’60 del secolo passato i fanfaniani siciliani (da Amintore Fanfani, uno dei leader della Dc) designeranno ai vertici dell’ERAS (Ente per la Riforma Agraria in Sicilia) un certo Salvo Lima, allora giovane ‘turco’ della Dc, ma già ‘promettente’. Un personaggio che la politica siciliana conoscerà molto bene negli anni successivi. (sopra, a sinistra, un'immagine di un feudo siciliano: foto tratta da ilcampanileenna.it)
Negli anni ’60 e ’70 del secolo passato l’assessorato all’Agricoltura della Regione siciliana sarà, in assoluto, il più ricco di fondi pubblici. Una caratteristica che manterrà fino ai giorni nostri non grazie al Bilancio regionale, ormai ridotto all’osso dai soldi che lo Stato trattiene, ma grazie ai fondi europei. Dagli anni ’50 fino agli anni ’90 tale assessorato spenderà migliaia e migliaia di miliardi di vecchie lire, privilegiando opere faraoniche di miglioramento fondiario che, spesso, favorivano i grandi esponenti della borghesia mafiosa. Di questo assessorato parlerà il giornalista Giuseppe Fava nei primi anni ’80, facendo in alcuni casi nomi e cognomi. Coraggioso e fermo nelle sue denunce portate avanti con il mensile I Siciliani, Fava verrà ammazzato nel gennaio del 1984. Le sue denunce, però, sono rimaste agli atti. Sono verità tremende suffragate dai fatti.
Il grande mistero dei fondi europei destinati alla Sicilia inizia, invece, nel 2001 con la Programmazione di Agenda 2000. Fondi che riguardano il periodo che va dal 2001 al 2006, con una ‘coda’ che si conclude nel 2008. Il mistero prosegue – sempre più fitto – con il Piano di sviluppo rurale (Psr) 2007-2014 (oltre 2 miliardi di euro). E qui arriviamo alle dichiarazioni dell’ex assessore Caleca. Il quale giustamente sostiene che la Regione non ha gli strumenti per capire come vengono utilizzati questi soldi. “Tutto quello che è successo nel mondo delle imprese – ha detto Caleca – non ha coinvolto il mondo dell’agricoltura: io non ho rapporti con i prefetti, posso sapere a quanto ammontano i finanziamenti erogati dal mio assessorato negli ultimi anni, ma non so a chi sono finiti e come sono stati utilizzati”. E non lo sappiamo nemmeno noi.
Però ci sono alcuni fatti che ricordiamo bene. Qualche anno dopo l’insediamento di Raffaele Lombardo alla presidenza della Regione siciliana – avvenuto nel 2008 – è venuta fuori la notizia che l’assessorato all’Agricoltura aveva erogato un finanziamento alla moglie dello stesso Lombardo. Dirigente generale dell’assessorato all’Agricoltura (per la precisione, del dipartimento Agricoltura che fa capo allo stesso assessorato) era già Rosaria ‘Rosa’ Barresi, donna potentissima dell’amministrazione regionale, ‘valorizzata’ dall’ex presidente Lombardo e confermata dall’attuale presidente della Regione, Rosario Crocetta. Il quale non solo l’ha lasciata al proprio posto dal 2012 ad oggi, ma nelle sorse ore l’ha nominata assessore regionale all’Agricoltura al posto di Caleca.
Con molta probabilità, Rosa Barresi, vera e propria Richelieu in gonnella dell’assessorato all’Agricoltura della Regione siciliana, rimane un personaggio centrale nel mondo dei finanziamenti pubblici a questo settore. E lei che ha avuto un ruolo centrale nella gestione del Psr 2007-2013, oltre 2 miliardi di euro di fondi europei. Di come sono stati spesi questi soldi si sa poco o nulla. Caleca ha provato a fare luce su come sono stati utilizzati (e soprattutto nelle tasche di chi sono finiti) questi soldi? L’interrogativo, almeno per ora, è destinato a restare senza risposta.
Però ci sono altri fatti oggettivi che vale la pena di sottolineare. Dal 2008 ad oggi, nonostante l’impiego di fondi europei, l’agricoltura siciliana, invece di andare avanti, è andata indietro. Valga per tutti l’esempio dei Forconi siciliani nel gennaio del 2012. Una rivolta di piccoli proprietari terrieri aggrediti al Fisco perché nell’impossibilità di pagare i debiti. Oggi tutta l’agricoltura siciliana è in crisi: è in ginocchio la zootecnia, è in ginocchio l’agrumicoltura, è in ginocchio la frutticoltura, è in crisi la serricoltura. Non esiste, ancora oggi – tanto per citare un esempio per molti versi clamoroso – una piattaforma nella quale lavorare il pomodorino di Pachino, uno dei prodotti dell’agricoltura siciliana più noti (e più imitati, se non ‘taroccati’) nel mondo. Ancora oggi – e questo è incredibile! – il pomodorino di Pachino viene pagato 0,30-0,50 agli agricoltori di Pachino per poi essere rivenduto a 8 euro nei mercati del resto d’Italia, non prima di essere stato impacchettato in una piattaforma che ha sede nel Centro Italia.
Dopo ben due Programmazioni dei fondi europei (Agenda 2000 e la Programmazione 2007-2013) la politica siciliana e la burocrazia regionale non hanno trovato né la voglia, né il tempo per risollevare le sorti di questo prodotto. E dire che si tratta di fondi strutturali, cioè di fondi europei che dovrebbero essere utilizzati per la realizzazione di infrastrutture agricole.
Non meno singolare è il fatto che sia nella legislatura del Parlamento siciliano 2008-2012, sia nell’attuale legislatura nessun gruppo parlamentare o singolo deputato abbia mai posto la questione del Psr 2007-2013. Nel Parlamento siciliano – questo è l’ennesimo fatto oggettivo – a nessuno interessa conoscere in quali tasche sono finiti gli oltre 2 miliardi di euro del Piano di sviluppo rurale 2007-2013. Nemmeno i quattordici deputati del Parlamento siciliano del Movimento 5 Stelle – per onestà di cronaca molto attenti ad altre questioni amministrative – si sono mai premurati di approfondire questa vicenda. Anzi.
Foto tratta da bevisalute.it