Un secolo dopo la nostra entrata nella Prima guerra mondiale, disponiamo di sufficiente serenità e prospettiva, per un giudizio sulla vicenda umana e politica innescata da quella decisione. Reagire al disastro di Caporetto, ci avrebbe consentito di vincerla quella guerra. Ciò nonostante non solo non avremmo incassato i dividendi sperati dagli interventisti in festa quel 24 maggio 1915, ma avremmo pagato un conto salato alla storia per gli effetti di lungo periodo indotti dal conflitto.
L’Italia unitaria manifesta presto la vocazione al protagonismo negli affari internazionali: i ceti dirigenti e casa Savoia, che avevano ricostituito il paese anche grazie all’abilità nel gioco delle alleanze, fremono per conferire rango alla nuova nazione. Frenati dai tentennamenti della Destra storica al potere nel quindicennio iniziale, possono, con Depretis, rincorrere i fasti delle potenze e andare per colonie. Nel 1882 l’Italia accantona la politica delle “mani nette” per entrare, da Assab sul mar Rosso, in Eritrea. Il governo, invece di concentrarsi sugli spasmodici bisogni del paese (arretratezza socio-culturale, analfabetismo, disoccupazione ed emigrazione, dualismo nord sud, acutezza di conflitti sociali), si getta nell’avventura africana in evidente competizione con la Francia. Crispi, al governo nel 1887, sogna la continuità territoriale dal mar Rosso all’Etiopia, trascinando la nazione in aggressioni esterne che fanno il paio con l’autoritarismo interno.
Incuranti della fragilità della nazione, re e governi proseguono anche nel secolo successivo a sperperare risorse per smania di grandezza e gli interessi dei ceti che rappresentano: dalle incursioni africane, che si estendono nel 1911 alla Libia, all’attività nelle guerre balcaniche del 1912. Bellicosa e impaziente di affermarsi, l’Italia, nonostante la dichiarazione di neutralità rilasciata il 2 agosto 1914 subito dopo l’avvio austriaco delle ostilità, è pronta per essere protagonista della spirale iniziata a Sarajevo nel giugno 1914 con l’assassinio di Francesco Ferdinando e sua moglie.
Nello stesso anno del riscatto della baia di Assab, Roma aveva firmato il trattato della Triplice Alleanza, legando il paese, in funzione anti francese e antibritannica, alla Germania di Bismarck e a quell’Austria Ungheria che occupava ancora territori “irredenti”. Nel maggio 1915 il trattato è denunciato, e i nostri varcano il confine verso Trento e Trieste. Nei 4 anni e mezzo di guerra paghiamo, a quella decisione, il pedaggio di 615 mila vittime, che neppure sapremo capitalizzare al tavolo della pace. L’Italia si ritrova alle prese con una vittoria pirrica: economia e morale a pezzi, retorica nazionalista a mille. Da lì i molti guai che il paese avrebbe dovuto gestire.
Sul mito della “vittoria mutilata” si costruiscono le premesse del fascismo. Il paese si lascia andare a disordini e conflittualità. I socialisti, che il dibattito sulla guerra aveva diviso (lì si era generato il nuovo Mussolini), subiscono la scissione di Livorno del ’21, diminuendo la capacità di sindacati e partiti riformisti a indirizzare la protesta sociale nei canali istituzionale e costituzionale, e spaventando i moderati con lo spauracchio della rivoluzione. La prima guerra frutta l’ampliamento territoriale temporaneo (molte conquiste andranno perse nella seconda guerra), ma regala il ventennio fascista e la partecipazione dalla parte sbagliata alla seconda guerra mondiale. La nuova destra e la nuova sinistra scaturite dalla prima guerra, superamento sulle estreme del moderatismo liberale e socialista ottocentesco, renderanno l’Italia e la sua politica l’eccezione in Occidente, garantendo, sin oltre il XX secolo, instabilità strutturale al nostro sistema politico.