La parola d’ordine con cui Matteo Renzi è giunto alla carica di premier e ha conseguito il controllo del Partito Democratico è nota. Sta in cima al suo stile di comunicazione-. E’ la madre di tutte le sue battaglie. Si chiama velocità. Fa rima con rapidità. Si coniuga con determinazione.
Non c’è decisione di questo nuovo decisionismo di memoria craxiana che non venga bagnata nei panni dell’Arno, da dove esce ripulita da una smagliante patina “smart”: quella della Governabilità 2.0. “Avete visto come siamo bravi?”, dicono quelli del Governo. “Siamo così capaci che saltiamo anche sulla faccia delle Commissioni parlamentari, pur di portare a casa il risultato…”.
Il paradigma della velocità, detto per inciso, spesso non include l’efficienza. La quickness non è la levità di cui parla Italo Calvino in “Lezioni americane”. Se la rapidità è greve, spesso lastrica i suoi percorsi di “incompiute” annunciate in perfetto orario. Talvolta anche in anticipo, dura poi lo spazio di un mattino o due.
Ma prendiamo per buono il metodo Renzi. E se Matteo è rapido come Achille pie’ veloce in materia di politiche del lavoro, e lo abbiamo visto col Job Acts, la riforma del lavoro che è stata una bella patata bollente con il principale sindacato che ha sollevato inutili barricate, quando si tratta di cose che riguardano il Mezzogiorno la giocosa macchina da guerra del governo prende il passo della tartaruga.
Esempi non mancano. Il primo si riferisce alla ormai famigerata Agenzia della Coesione Territoriale, avviata dal governo Letta con Carlo Trigilia. E’ ancora al palo, dopo mesi dalla nomina del direttore: che cosa stia a dirigere, non si sa, visto che il direttore è stato nominato, l’Agenzia ancora non c’è.
Sul rilancio del sito di Bagnoli, l’ex area industriale a Ovest di Napoli con gli impianti dismessi di Italsider, Eternit e Cementir, il governo aveva annunciato con rulli di tamburo un decreto destinato a sbloccare uno stallo che dura da venti anni con l’insediamento di un commissario con il compito di mettere ordine nel groviglio di indecisioni, veti e gestione burocratica. Questo a fine agosto del 2014. Dopo di che ancora silenzio.
Ancora: la sostituzione del ministro degli Affari regionali, la calabrese Maria Carmela Lanzetta, defenestrata in una notte. Renzi ha annunciato, rimandandola a casa, che al suo posto avrebbe insediato un’altra donna, ma con la delega di ministro per il Mezzogiorno. I giornali si scatenarono in una ridda di pronostici, con la siciliana Anna Finocchiaro in pole position. A fine gennaio la Lanzetta formalizza le dimissioni per essere declassata al rango di assessore regionale in Calabria. Ma poi? Un nulla di fatto anche in questo caso.
Infine. La disinvoltura con cui Matteo Renzi, che pure ha il controllo del suo partito, ha abbandonato al suo destino la zattera delle primarie del Pd in Campania, con ben cinque candidati a bordo, lasciati a un insolito destino come clandestini tra le mani di uno scafista senza scrupoli. Primarie vinte domenica 1° marzo dal sindaco di Salerno Enzo De Luca, che stacca di poche lunghezze il suo avversario, l’eurodeputato Andrea Cozzolino. C’è un piccolo grande problema, però. Su De Luca pende una condanna in primo grado di giudizio per abuso d’ufficio, circostanza che lo renderebbe incompatibile con il ruolo di presidente della Regione Campania per effetto della legge Severino, la stessa che ha tagliato le gambe alla carriera politica di Silvio Berlusconi. Pare che, se non arriverà in aiuto una sentenza del Tar favorevole ad accoglierne il ricorso, De Luca abbia già pronta l’arma di una nuova norma da mettere in campo, concepita per azzerare la legge Severino. Una perfetta legge ad personam, fotocopia di quelle che Berlusconi calava in Parlamento e su cui per anni il Pd ha macinato polemiche e impostato campagne elettorali.