Spesso per esercitare il potere non occorre esprimerlo, basta alludervi: non si colpisce il bersaglio ma gli si alita il fiato sul collo, e si sta a vedere che succede.
Fra le funzioni proprie del presidente della Repubblica c’è quella di presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. E’ noto: anche ai magistrati. L’equilibrio fra i Poteri dello Stato è venuto meno nella stagione di Tangentopoli, e ha trovato il suo fatto-simbolo nell’abrogazione dell’immunità parlamentare, oltre che in alcuni storici character-assassinations. Quella stagione si è poi arricchita, a più calde latitudini, del monattismo giudiziario che, successivamente alle stragi di Capaci e di Via D’Amelio, ha coperto la cattedra dello storico con toga e ceppi. Da allora, la c.d. Seconda Repubblica è stata la Repubblica dello squilibrio istituzionale. Lo squilibrio è stato (ed è) il suo equilibrio. Ed anche questo è noto.
Su questo terreno è evidente che il presidente del Consiglio in carica conosca la realtà del potere in Italia, e che voglia condursi secondo scaltrezza. Gli interessati si sono fatti sentire, alla loro maniera: indagini su mamma e papà, però così, senza cattiveria; altre indagini (esposte in piena campagna elettorale, of course, come il sangue di San Gennaro) sul candidato alla Presidenza della Regione Emilia, Stefano Bonaccini e poi archiviate; infine qualche scaramuccia sulle ferie, ma anche queste solo come annuncio. La partita è aperta, occhio vigile, certo: perchè la tutela della Costituzione, sia pure a macchia di leopardo (esclusi, per esempio, gli artt. 15 -libertà e segretezza della corrispondenza; 24 -diritto di difesa; 27 -presunzione di non colpevolezza) è cosa buona e giusta; ma, insomma, gli interessati ritengono di essersi formata un’idea, magari generica, magari temporanea, sulle forze in campo fiorentino e sui suoi obiettivi.
Dove si sono subito resi necessari immediati sondaggi è, invece, in direzione del Quirinale, vista la novità. Quando è in gioco la tutela della democrazia leopardata non si possono correre rischi. Per fortuna, anche alle consuete, calde latitudini, gli amici non mancano.
Comincia il Fatto Quotidiano. Il giorno dopo l’elezione, in prima pagina, si legge che il fratello Antonio (Professore e Avvocato), di cui è così rigoroso il ritegno che molti ne ignoravano persino l’esistenza, avrebbe ricevuto dei prestiti da Enrico Nicoletti, “cassiere della Banda della Magliana”. Inoltre sarebbe stato “radiato” dall’Ordine degli avvocati. Il Prof. Mattarella risponde a giro di posta, e spiega che non c’era nulla di speciale o sospetto. Prestiti pagati e ottenuti quando (primi anni ’80) Nicoletti era un imprenditore noto e ben introdotto. Dall’albo era stato”cancellato” a sua richiesta, perchè aveva optato per l’insegnamento a tempo pieno, incompatibile con la professione forense. Ed altre insinuazioni documentalmente liquidate.
Dal famoso giornalista autore del pezzo nemmeno un colpettino di tosse, ma solo la laconica postilla che la “ricostruzione dei fatti”è stata quella riportata dal “Tribunale di Roma nell’ordinanza di sequestro dei beni di Enrico Nicoletti”. Quello che però non scrive è che la verità messa in mostra dal Prof. Antonio Mattarella era leggibile in due ulteriori sentenze (non ordinanze) emesse sulla vicenda e agevolmente reperibili. Solo che si fosse voluto. Ma bisognava semplicemente alitare sul collo del Colle. E tanto bastava.
Il giorno dopo, di rincalzo, due grandi firme di Repubblica si recano a Santa Venerina, ridente paesino etneo dove vive il Prof., e tornano sulla questione, non cavando nulla perchè nulla c’era da cavare. Il tono dell’intervista è redazionale, e del contenuto (mera chiaccheratina pettegola) avrebbero potuto occuparsi giovani volenterosi della cronaca locale; invece vanno Attilio Bolzoni e Francesco Viviano. E’ il fratello del neo presidente della Repubblica, si dirà. Sì, certo. Ma le domande così ovvie e minute rispetto alla statura delle Grandi Firme, la tempestività, la petulanza sicura di sè (“..lei dovrebbe spiegarci, al di là di come si è concluso il caso giudiziario…”), nel complesso sembrano descrivere una filigrana diplomatica, per così dire, da amico buono: quella figura sempre cordiale e ossequiosa, che ha il solo compito di dire senza parlare, di evocare il sottilissimo crinale fra la serenità e l’inquietudine, di lasciare dietro di sè un’impronta di cordialità frammista a schegge di sinistro presentimento.
Ieri, infine, un altro titoletto: forte, ma presto fatto scivolare (per ora) verso la parte bassa del tabellone: “I 'neri' di Fioravanti e l’omicidio di Piersanti Mattarella: le ombre sul ruolo di Carminati”. Nell’epoca di Twitter bastano i nomi. Carminati è stato presentato come il capo della c.d. Mafia Capitale (peraltro il Procuratore Generale della Corte dei Conti, Salvatore Nottola, la settimana scorsa ha voluto dichiarare: “Secondo me, quando si parla di Mafia a Roma, si fa un errore. C’è un’improprietà di linguaggio: la mafia è tutt’altro”). Senza in realtà che da parole così accozzate si possa trarre nulla di intellegibile, rimane però l’ombra, la cupezza del disordine allusivo.
Ma, volendo, si potrebbe fare un po' di più. L’indagine sull’omicidio Mattarella fu l’ultima che recò il contributo di Giovanni Falcone. L’ipotesi che prese corpo in una formale imputazione fu che gli esecutori materiali dell’omicidio “eccellente” sarebbero stati Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini, i “neri” del titolo. Falcone, pur ribadendo la matrice mafiosa dell’omicidio (la trasparenza alla Regione Sicilia nuoceva ai noti interessi) mosse quell’accusa sulla base di due fattori: la testimonianza diretta della vedova e la valutazione delle dinamiche intrinseche a Cosa Nostra (i “corleonesi”, ricorrendo ad “esterni”, avrebbero agito in autonomia, rimarcando, ad un tempo, la sopravvenuta irrilevanza delle vecchie famiglie). Poi ci fu Capaci. E poi ci fu Caselli.
L’assoluzione dei “neri” dipese dallo schiacciante contributo di Marino Mannoia e di Buscetta. Dopo otto anni di collaborazione con Falcone, nella quale nulla avevano dichiarato sulla vicenda, varato il processo Andreotti (nel 1993, ancora indagine) vollero certificare che Falcone, buon’anima, non aveva capito. Mattarella era stato ucciso con l’assenso di tutte le famiglie, vecchie e nuove; e gli esecutori erano stati “picciotti”, altro che “neri” funzionali ad un’azione “a sorpresa”. Trattavasi di Davì Francesco e Federico Salvatore, rivelarono. Ma il veleno era fra le righe. Buscetta e Marino Mannoia asserivano di sapere la verità su Mattarella per averla appresa da Stefano Bontate. “Blindare” questo canale informativo (“esploso” dopo Capaci) era indispensabile, essendo lo stesso da cui sarebbero affluite le informazioni sull’Andreotti “vicino”.
Di quegli esecutori materiali “interni” non si è saputo più nulla. Durante il dibattimento Andreotti, a Palermo, Marino Mannoia ridusse il suo schiacciante contributo a “si è vociferato una volta che forse Davì abbia avuto un ruolo, ma io non sono sicuro di ricordare bene”. Amen.
Ma nel frattempo la vedova Mattarella era stata “superata” da Marino Mannoia e, a Palermo, la “pista democristiana” potè prendere il largo. Chissà, magari Viviano e Bolzoni potrebbero chiedere a Caselli, visto che sono Grandi Firme. E, già che ci sono, pure al Dott. Pignatone, giovane sostituto Procuratore a Palermo nel processo che Marino Mannoia e Buscetta ripulitono dai “neri” e, ora, Procuratore della Repubblica a Roma. Quella della “Mafia capitale”, di quel Carminati& friends, così confusamente tirato in ballo nel 2015, ed in altre contingenze ritenuto estraneo alla Sicilia.