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November 5, 2014
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November 5, 2014
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Perché Obama e i democratici hanno strameritato di perdere

Francesco ErspamerbyFrancesco Erspamer
L'esultanza dei repubblicani

L'esultanza dei repubblicani

Time: 4 mins read

 

Non c’è dubbio che la sconfitta democratica a queste elezioni sia netta. Non solo hanno perso il Senato e ulteriormente ceduto terreno alla Camera: hanno anche regalato il controllo di vari stati ai repubblicani, in alcuni casi con super-maggioranze che consentiranno loro di cambiare statuti e regolamenti elettorali. Persino il Massachusetts, uno degli stati più democratici del paese, ha ora un governatore repubblicano. 

Una batosta senza attenuanti: ma ampiamente annunciata. Direi anzi: ampiamente meritata. Sono anni che i democratici dimostrano una mediocrità politica e culturale disarmante, anche nei loro leader più prestigiosi, a cominciare da Barack Obama. La destra può permettersi incompetenza e approssimazione: la destra non fa appello all’intelligenza e non si propone di trovare soluzioni, solo di fare gli interessi dei ricchi e di dare sfogo alle frustrazioni degli altri. La sinistra invece se non ha idee e coraggio non ha niente.

Resta la speranza che l’ampiezza della disfatta provochi un ricambio e imponga una nuova linea politica, quella dei democratici migliori e più populisti, da Elizabeth Warren a Bernie Sanders a Bill de Blasio.

Ecco dunque quelle che secondo me sono le principali ragioni di questo disastro elettorale. Ne manca una quinta, che riguarda il problema dell’immigrazione e in generale delle minoranze: è una questione complessa e proverò ad analizzarla specificamente un’altra volta.

1) Alla vigilia di queste elezioni era difficile ritenere i democratici di Obama un partito di sinistra, sia pure nel significato molto moderato che la parola ha negli Stati Uniti. Basti vedere il modo in cui hanno ancorato la campagna elettorale ai successi di Obama nel rilanciare l’economia, aumentare l’occupazione, portare la borsa a record storici: senza minimamente considerare il fatto che questi successi si siano tradotti esclusivamente in ulteriori profitti per i ricchi, mentre la classe media e povera non solo non ha beneficiato della ripresa ma ha visto ridursi il suo tenore di vita e ancor di più la sua qualità della vita. Anche il calo della disoccupazione ha per lo più generato posti precari e sottopagati. Non mi è davvero chiaro come ci si potesse aspettare che chi oggi sta peggio di sei anni fa (statisticamente, il 90% della popolazione) avrebbe sostenuto l’attuale governo. Il sospetto che i repubblicani non siano esenti da colpe ha spinto molti all’assenteismo ma resta il fatto che la responsabilità è di chi esercita il potere: se non sa gestirlo nel modo che vorrebbe deve rinunciarci.

2) I democratici non hanno fatto una campagna elettorale di sinistra, volta ad affermare principi di eguaglianza, giustizia, solidarietà, trasparenza. Hanno contrastato i repubblicani sul loro terreno e con il loro linguaggio: e giustamente molta gente, fra due proposte per molti versi equivalenti, ha preferito la destra originale piuttosto che la copia. La questione è fondamentale: sono i neoliberisti a teorizzare l’assoluta necessità del successo; la sinistra deve (e non può che) dare la priorità ai valori, anche quando i sondaggisti non li considerino vincenti. In altre parole, è essenziale che la sinistra si rassegni a perdere tutte le volte che non può affermarsi alle proprie condizioni: una vittoria ottenuta attraverso trasformismi o compromessi equivale a una sconfitta (solo per la sinistra, per la destra va benissimo), e una sconfitta subìta malgrado trasformismi e compromessi, come quest’anno, è una catastrofe. 

3) La iGeneration ha tradito: i giovani non hanno votato. Temo che gli effetti del processo di diseducazione provocato da programmi scolastici che non danno né un canone contro cui ribellarsi né strumenti critici da usare per emanciparsi comincino a diventare visibili. Nelle scuole americane si insegnano political correctness e conformismo; nelle università, come fare i soldi. Non sempre e non dappertutto: ma in maniera crescente. Il risultato è un esasperato individualismo, ai confini dell’egoismo. Si aggiunga la semplificazione della comunicazione consentita o imposta da tweet e sms, per non parlare della dealfabetizzazione a vantaggio delle immagini; e il falso senso di autonomia e controllo dato dagli smartphone e dai social media, esperienze di superficie, non soggette ai rischi del confronto diretto e alla necessità della mediazione. Finché la collettività non si rifarà carico della formazione dei giovani sottraendoli all’influenza delle corporation, ossia della pubblicità e del consumismo, non ci saranno speranze di un miglioramento della coscienza collettiva e della condizione umana. Per la sinistra è una battaglia centrale ma finora i democratici l’hanno completamente ignorata o addirittura fraintesa, facendosi anzi carico di operazioni che oggettivamente favoriscono la destra ma che la destra era restia a compiere apertamente, quale la marginalizzazione dei classici e delle discipline umanistiche tradizionali in nome di vaghe aspirazioni a un multiculturalismo di fatto indistinguibile dal neoliberismo globalista.

4) I democratici sembrano essersi rassegnati al ruolo che il denaro gioca nelle elezioni. Uno dei punti fissi di ogni loro intervento dovrebbe essere la proposta di rendere illegali i finanziamenti delle corporation in quanto incompatibili con il processo democratico. Non facile raggiungere l’obiettivo, ovviamente, con una Corte Suprema controllata dalle corporation stesse. Ma le battaglie di principio si fanno anche per costruire, pian piano, un consenso. La mia esperienza personale è stata estremamente negativa: nelle scorse settimane gli unici messaggi che ho ricevuto dal partito democratico o organizzazioni che lo sostengono, via internet o telefono, chiedevano soldi. Non il mio voto: i miei soldi. E neppure nel nome di qualche ideale: l’impressione era anzi che il fundraising non fosse un mezzo bensì il fine. Il che va bene per la destra neoliberista ma è inaccettabile a sinistra.

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Francesco Erspamer

Francesco Erspamer

Nato a Bari, cresciuto a Parma e in Trentino, laureato a Roma, professore a Harvard. Mi interesso di letteratura, politica, storia delle idee e cambiamenti culturali. Insegno corsi su estetica, romanzo moderno e contemporaneo, Rinascimento, calcio. Di recente ho scritto: La creazione del passato, Sulla modernità culturale e paura di cambiare, Crisi e critica del concetto di cultura. Come Gramsci, penso che al pessimismo della ragione occorra accompagnare l’ottimismo della volontà, e come James Baldwin, che la libertà non la si possa ricevere in dono: bisogna prendersela.

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